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Superdegustatori o solo Superlingue?

A proposito di analisi sensoriale e percezione, in un precedente commento Lizzy segnala un post di Aristide. Pare che – con una tecnica tutto sommato semplice – sia possibile colorare la lingua e contare il numero di papille presenti sulla sua superficie, scoprendo così se si è dei super-degustatori o semplicemente delle mezze cartucce. La cosa è così curiosa che merita un paio di considerazioni da sensorialista.
La prima: le papille non sono in sé i recettori del segnale gustativo, ma sono i contenitori dei trasduttori. Sono un po’ come delle fragole, che hanno sulla superficie tanti semini: questi semini sono le gemme gustative, che a loro volta contengono dei microvilli (delle minuscole escrescenze), e sono questi ultimi a trasmettere il segnale. Perciò, una volta contate le papille, bisognerebbe contare le gemme gustative; e poi bisognerebbe contare i microvilli… insomma, senza un microscopio non ce l’asciughiamo!
Ma ammettiamo che, in qualche modo, il numero di papille c’entri con il numero di recettori. Bene, abbiamo solo misurato la punta dell’iceberg! Come dice giustamente Aristide, la percezione avviene in realtà nel cervello, quindi non si può dire che chi ha più papille percepisce i sapori in modo più intenso. Infatti, a seconda dei casi, il cervello amplifica o addirittura cancella intere sensazioni. Anche da un momento all’altro: per esempio, dopo aver assaggiato un vino spiccatamente amaro, nel vino che si assaggia dopo la stessa sensazione di amaro verrà percepita relativamente più intensa (effetto alone). E non è che nel frattempo siano cresciute altre papille! È solo che il cervello ci farà più caso. A maggior ragione bisogna essere cauti quando si parla dell’olfatto: è vero che i recettori con l’età tendono a deteriorarsi e diminuire, ma spesso gli assaggiatori più anziani sono i più bravi, perché suppliscono alla grande con l’esperienza. Quindi, i degustatori con meno di 15 papille per 0,49 cm quadrati possono tirare il fiato…
In ogni caso, per filosofia l’analisi sensoriale taglia la testa al toro: se è vero che persone diverse percepiscono in modo diverso, perché affidarsi a una persona sola per descrivere un vino? Non è meglio prendere un gruppo di persone e confrontarne i diversi pareri con la statistica? In questo modo si potrà avere il giudizio del grosso delle persone, scartando i pareri meno rappresentativi: in fin dei conti, se devo scegliermi un materasso, non devo per forza farlo provare alla principessa sul pisello…

4 commenti

  1. Manuela,
    grazie per aver ripreso il mio post. In realtà, Aristide in questa occasione ha raccontato i risultati di una serie di ricerche avviate negli USA. Non ho dubbi che la tua spiegazione circa la struttura papille-gemme gustative-microvilli sia corretta. Come non ho dubbi che il segnale trasmesso sia recepito, elaborato e interpretato dal cervello. Il senso generale delle tesi sostenute dai ricercatori è che un numero maggiore di papille inevitabilmente invia un numero maggiore di segnali/informazioni al cervello (altrimenti ne sarebbe bastata una sola!). Non comprendo dove sia, quindi, la sostanza dell’eventuale critica a questa tesi, ovvero più papille più segnali elettrici trasmessi. Vedo piuttosto una forte analogia con la banda trasmissiva digitale: maggiore è la capacità della trasmissione (ovvero quantità delle informazioni trasmesse), maggiore è la definizione dell’ “immagine del gusto” che il cervello è in grado di elaborare. Possiamo parlare, nel caso dei super-degustatori, di “lingue a banda larga”?

  2. Pingback: Aristide - Blog di viaggio nel vino

  3. @ Giampiero: nessuna critica, anzi visto che si tratta di cose che sono ancora in via di studio, mi fa proprio piacere scambiare delle idee con te. Ho letto a proposito delle ricerche di Linda Bartoshuk, e tra l’altro ci sono anche genetisti in Italia che in questo momento stanno facendo degli esperimenti molto interessanti sul senso del gusto. Quello che mi ha incuriosito è il fatto di contare le papille, che non era l’aspetto principale dell’esperimento di Bartoshuk. Prima di tutto lei parla di “taste buds” che non si traduce “papille” ma “bottoni gustativi”, che sono appunto quei “puntini” che si trovano sulle papille. Inoltre il PROP usato nel suo esperimento è una sostanza amara, che lei ha fatto assaggiare rilevando le reazioni dei soggetti. Da un punto di vista percettivo c’è una differenza fondamentale tra il contare le papille e il misurare la percezione finale: per usare un paragone simile al tuo, è come la differenza tra la risoluzione della fotocamera con cui faccio una foto e la risoluzione dello schermo su cui io poi guardo la foto.
    Il rapporto tra l’intensità dello stimolo (es. la concentrazione di zucchero in una bevanda) e l’intensità della sensazione che provoca (il dolce) è in realtà una cosa molto difficile. Esistono degli studi ancora del 1860 che mostrano che la relazione non è direttamente proporzionale. Lo vediamo spesso anche nei nostri corsi di assaggio: ci sono tantissime variabili che ci passano in mezzo, ne abbiamo individuate tredici (esperienza, personalità, attenzione…) e la genetica è solo una di queste tredici.
    Il fatto è questo: i segnali elettrici arrivano al cervello, ma il cervello ha come tante manopoline del volume, che regolano la percezione in base a questi tredici fattori: in parte secondo impostazioni fisse, in parte secondo l’abitudine, in parte momento per momento.
    Quindi non dico che non ci siano differenze nei modi di percepire: dico solo che contare le papille è un modo un po’ capitale per valutare un degustatore. La ricercatrice americana stessa dice che un “super-taster” può dipendere da due cose: la prima è la presenza di un determinato gene, e la seconda è la quantità di bottoni gustativi. E dice anche che i due fattori non dipendono l’uno dall’altro.
    Un’altra cosa è che l’inglese “super-taster”, come lo usa l’autrice, non lo tradurrei some super-degustatore o super-assaggiatore: è, se vogliamo, un “super-gustante”, cioè uno che sente di più i sapori. Un assaggiatore non deve solo sentire i sapori, ma deve individuarli, isolarli, riconoscerli e alla fine misurarli. Non ti dico le variabili che influiscono nella
    misurazione: molti, pur avendo soglie di percezione simili, hanno atteggiamenti psicologici del tutto diversi verso la scala di misurazione. Ci sono i massimalisti, i minimalisti, quelli che stanno sempre a metà, quelli che usano solo i numeri dispari…

  4. Mario Deltetto

    Condivido l’affermazione di Manuela Violoni secondo la quale all’interno della degustazione intervengono fattori di ordine psicologico. In Psicologia cognitiva è infatti ormai assodato che la percezione è una ricostruzione di un input sensoriale e non una risposta meccanica ad uno stimolo, inoltre da alcuni studi condotti in Neuropsicologia si è potuto osservare come esperienze negative possano influenzare sul giudizio olfattivo di un soggetto. A mio avviso all’interno dell’analisi sensoriale continua a sussistere un approccio meccanicista che vede il gusto come il risultato oggettivo di un meccanismo stimolo-risposta. In realtà la sensazione è frutto di un processo mentale complesso nella quale hanno notevole importanza gli schemi cognitivi dell’assaggiatore. Anche se un soggetto riceve un numero elevato di informazioni al secondo non è detto che riesca ad elaborale. A volte all’interno della mente di un individuo (anche non patologico) intervengono dei meccanismi dissociativi che bloccano l’elaborazione cosciente dell’input sensoriale. Questo spiega per quale motivo non esiste una diretta proporzionalità tra la concentrazione di zucchero in una bevanda e l’intensità della risposta degli individui.

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