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Fermentazioni: il caffè fuori tempo

Negli anni Settanta gli enologi sognavano di poter guidare le fermentazioni del vino, evitando così le avarie di processo che non di rado deterioravano il prodotto al punto di doverlo avviare all’acetificio o, peggio alla distillazione. A dire il vero il sogno era molto più antico e si fece concreto nell’Ottocento quando Louis Pasteur scoprì gli agenti della fermentazione. Ma negli anni Settanta entrarono in commercio lieviti selezionati liofilizzati che promettevano di prendere il sopravvento sulla flora indigena conducendo un processo a regola d’arte. In realtà non riuscivano a farlo, ma nei decenni successivi il lieviti furono perfezionati al punto che riuscivano persino a dare uno specifico timbro aromatico: dalla banana ai frutti tropicali, a molti altri. Qual è il problema? Se l’uso è indiscriminato i vini prodotti con una determinato ceppo si assomigliano come gemelli, non c’è più l’impatto del territorio e si riduce di molto quella del vitigno.

Nel caffè si sente sempre con maggiore insistenza parlare di governo delle fermentazioni a carico dei prodotti realizzati con processo a umido. Da una parte ci viene da dire: “Era ora, che cosa stava aspettando il caffè?” Dall’altra la cosa ci preoccupa non poco: siamo di fronte a un appiattimento tra lotti? Perderemo quella complessità aromatica che intriga così tanto noi assaggiatori da portarci come ebeti a mantenere il naso sulla tazzina allontanandoci dal mondo? Il mondo berrà un caffè migliore ma standard?

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