Ricerche di mercato, tendenze sensoriali, nuovi metodi e analisi di prodotti
 

Niente vino a pasto per i futuri enologi

A Udine no, a San Michele all’Adige nemmeno, a Verona non so, ma penso sia la stessa cosa. Le citate località sono tutte sedi di corsi di laurea in viticoltura ed enologia, ma a quanto mi risulta gli studenti in mensa possono bere solo acqua o (peggio) soft drink. E credo che lo stesso succeda negli altri 14 corsi di laurea che, sparsi per la penisola, trasferiscono la scienza della vite e dei suoi prodotti. Di sicuro plaudiranno a questo stato di cose il presidente della società di alcologia Valentino Patussi – affermò che l’alcolismo inizia con il primo sorso – e il mio amico Gualtiero Marchesi che non è molto convinto del bere a pasto, quasi il vino possa compromettere la purezza del profilo sensoriale dei suoi piatti, rovinare quello che lui chiama il “gusto assoluto”. Io, enologo della vecchia scuola (vecchia nel senso autentico del termine, quella in cui si entrava a 14 anni e si usciva a 20, se si era bravi) non sono dello stesso parere. Se per un enologo l’assaggio e l’analisi sensoriale sono basilari per garantire il successo della sua opera in quanto metodi predittivi della percezione che avrà del prodotto il consumatore, è logico pensare che debbano essere appresi nel migliore dei modi. E la psicologia mette molto bene in evidenza quanto l’apprendimento sia correlato all’esperienza e all’emozione, e quindi, in questo caso, all’uso del vino nei vari contesti di consumo e alla passione. Quindi privare i laureandi enologi del vino a pasto significa di fatto ridurne le potenzialità professionali. Chi non ama il vino una laurea in materia la può prendere lo stesso (purtroppo), ma chi lo ama, come fa a rinunciarvi proprio nel momento clou del suo uso?

15 commenti

  1. Caro prof,
    contraddirsi, evidentemente, è umano. Se è grave, e decisamente contradditorio, che dei futuri wine-maker non possano bere vino ai pasti (forse si pensa che ne berranno anche troppo quando entreranno in attività?) sfiora il ridicolo la decisione di una gloriosa confraternita enoica come il veronese SNODAR – Sovrano Nobilissimo Ordine dello Antico Recioto – di intronizzare neo-cavalieri anche degli …astemi dichiarati. Solo perchè sono, o dichiarano di essere, dei VIP.
    In compenso, noi guidaioli – che sul vino scriviamo, e ci picchiamo pure di giudicarlo – non ne abbiamo mai abbastanza. Prova ne è il fatto che di recente un gruppo di noi (me compresa), dopo una lunga seduta di degustazione nella quale abbiamo giudicato 85 vini italiani di diversa provenienza e tipologia, sia nella pausa pranzo ma ancor più a cena ci siamo concessi altre 2-3 bottiglie…fuori concorso.
    Che dici, esageriamo?
    Congratulazioni per il nuovo blog. Ci voleva.

    Lizzy

  2. Devo dire che il caso dello SNODAR, a me sconosciuto, mi lascia perplesso: cosa non si fa per assicurarsi un VIP o uno pseudo-VIP… In quest’ottica mi lascia anche perplesso che siano invitati a moderare convegni tecnici che parlano di vino giornalisti che non hanno praticamente mai frequentato il settore. Mi sembra insomma che nel mondo del vino ci sia un certo proliferare di personaggi che non so bene quanto possano contribuire a questo settore in un momento comunque molto delicato.

  3. Cara Lizzy,
    nel tuo scritto di spunti per intervenire ce n’è più d’uno. Vado con il primo: come fa uno a essere un VIP se non beve vino? Posso capire che ne beva poco, ma se non beve vino non può essere in grado d percepire un’intera parte della realtà, significa che ha un canale cinestesico in qualche modo compromesso. Non è che lo Snodar l’abbia intronizzato proprio per aiutarlo?
    Ed ecco il secondo: ma non ti sembra che 85 vini in un concorso siano un po’ troppi? Se è vero che qualsiasi strumento di misurazine deve rimanere inalterato nel corso di tutta la serie di prove, sei sicura che se ti avessero fatto ripassare il 7° vino in 77ma posizione avresti ancora dato la medesima valutazione? Ok, so cosa stai pensando: se Luca Maroni ne fa 494 in un giorno e gode presso alcuni produttori (supermedagliati da lui medesimo) così ampia considerazione, con 85 vini si è davverro dei principianti. E io mi sento male a proporre ai concorsi di assaggiare solo al mattino e al massimo 45 vini. Mi sento davvero alle elementari.
    Il terzo spunto: condivido invece una sana bevuta al termine del concorso. Non c’è nulla che fa venire più sete che bere buon vino.

  4. Riccardo Modesti

    Se le guide avessero budget miliardari e i degustatori fossero coperti d’oro, si potrebbero fare venti vini al mattino e venti al pomeriggio, andando avanti per settimane, e si farebbe solo questo per professione.
    Molte cose della vita poggiano su equilibri sottili, e l’imperfezione è sempre dietro l’angolo. L’importante è tentare, per quanto possibile, di fare del proprio meglio ed essere in pace con la propria coscienza sapendo di aver fatto il possibile. L’alternativa a questo scenario è quella di non fare nessuna guida perché così non si sbaglia.
    Frequento viticoltura ed enologia a Milano: posso assicurare che molti degli iscritti non hanno idea di cosa sia il vino, molti non lo bevono, si interessano a questa misteriosa bevanda solo per sballarsi: insomma, si trovano lì perché è un po’ trendy. Visto questo, è meglio che continuino a bere acqua e soft drink e decidano, presto o tardi, di andare a portare la loro carica di insipienza da un’altra parte. Del resto, come canta Guccini in “Eskimo”, “a vent’anni si è stupidi davvero” (senza eccezioni…).

  5. Riccardo, il panorama che tu tracci su Viticoltura ed enologia a Milano è veramente sconfortante. Forse la grande eco mediatica che ha avuto il vino in questi anni ha portato la gente nelle università per studiare il vino come molti già studiano medicina o legge, vale a dire nell’ottica “business is business”. Invece credo che per studiare il vino serva ancora molta passione, poi il business c’è e si farà, ma con passione.

  6. Visto che è intervenuto il collega-guidaiolo Riccardo, scopro le carte: la mega-degustazione erano le finali del Nord-est di una guida dei vini, alla quale anche lui lavora.
    Si trattava semplicemente del giudizio finale su vini già ampiamente giudicati: infatti alcune volte ci siamo trovati a discutere di filosofie produttive più che dei vini in se’, tutti molto buoni. Ma non potendo premiare tutti gli 85 vini finalisti abbiamo dovuto essere oltremodo severi. E poichè, appunto, dovevamo spaccare il capello in quattro, mi sono resa conto che nella premiazione (o non-premiazione) di un vino alla fine subentrano anche un sacco di considerazioni…filosofiche, strategiche, di opportunità, di cui forse sarebbe meglio informare anche il lettore-consumatore. Notare che gli assaggi erano coperti…
    Un aneddoto simpatico? Come coordinatore regionale ho presentato solo 12 vini, divisi per tipologie. I Recioto della Valpolicella erano solo 4. Di questi, per errore, uno è stato ripetuto 2 volte nella stessa batteria. Nessuno di noi lo sapeva, ovviamente. Beh, è stato scelto entrambe le volte. Quel Recioto della Valpolicella insomma è piaciuto davvero…e siccome so che piace anche all’amico Alberto Ugolini, penso che sarà contento del risultato… ;-))

    Circa le scelte dello Snodar, sono anni che le contesto. Sono anch’io (da annia) cavaliere del Recioto – per meriti acquisiti sul campo, dovete concedermelo – e tuttavia sono un cavaliere ribelle e dissidente. Finchè non cambieranno certi atteggiamenti non parteciperò mai ai loro incontri.

    Per Riccardo; il fatto che negli ultimi anni sia diventato di moda studiare enologia spiega le performance in larga parte deludenti – in certi casi fallimentari – di molti dei neo-laureati. Messi alla prova nelle aziende, hanno dimostrato di non sapere nemmeno come si usano gli strumenti di laboratorio. Senza falsa modestia, ne capisco più io di vino, che da oltre 10 anni frequento quotidianamente enologi e produttori, di loro. Prevedo tempi duri per i futuri wine-maker: già ora il mercato è in grado di assorbirne pochi, se poi ne arriva una massa di scadenti saranno tutti a spasso.
    Per non parlare di chi il vino deve venderlo… ma questa è un’altra storia.
    Anzi, un altro master!

    Lizzy

  7. Alberto Ugolini

    Esiste, io credo, un punto di incontro fra le osservazioni di Luigi, Riccardo e Lizzy, un punto di incontro che si basa sull’intelligenza stessa del critico o dell’analista sensoriale, direttamente funzionale all’obiettivo dell’assaggio, da una parte, e alle capacità di assaggio, alla concentrazione e all’onestà intellettuale dall’altra.
    Conosco abbastanza bene le esigenze delle guide, così ben descritte da Lizzy e Riccardo, e conosco altrettanto (anzi di più) bene i presuposti della corretta analisi sensoriale dall’altra e, per quanto distanti possano sembrare, non sono certamente antitetiche.
    Più che il problema della stanchezza fisica ritengo più pericoloso quello della stanchezza psicologica e di concentrazione. Assaggiare anche solo 10 vini dovendo compilare una scheda con numerosi descrittori e magari dovendo scrivere un commento dettagliato può risultare ben più pesante che valutare 50 vini con una scheda semplice e con pochi, definiti e condivisi parametri di valutazione. Certo che occorre un certo allenamento all’assaggio ma occorre ancor più concentrazione e tecnica (“veloce sul campione, lento fra i campioni”) e un affiatamento fra il gruppo di assaggiatori. Considerare questi dei dati di fatto, senza controllarne l’effettiva realizzazione, é una delle gravi pecche di molti gruppi di assaggio delle guide. OK, io (ora l’analisi sensoriale parla in prima persona) posso accettare che, per esigenze pratiche, si debbano assaggiare un centinaio di vini al giorno, ma devo mettere in atto dei meccanismi che mi consentano di controllare se i punteggi (o i giudizi) sono stati assegnati correttamente. L’aneddoto di Lizzy è un esempio classico di cosa si dovrebbe minimamente fare, quello della ripetibilità del giudizio cioè di inserire ogni tanto un campione ripetuto e controllandone la similarità delle opinioni, anche in giornate diverse…La collimazione dei giudizi fra i diversi degustatori é un altro parametro importante, per non parlare dei due capisaldi fondamentali di una affidabile analisi: l’assaggio in un gruppo numeroso e il completo anonimato dei campioni.
    Certo, l’esaustività insita in un giudizio complessivo dato in punti, o stelle, o bicchieri, o calici, va a farsi benedire ma tant’é… (Ricordo, ma magari ne riparleremo, che comunque vi sono meccanismi applicabili anche alle guide che consentono giudizi molto affidabili, vedi Guida Altroconsumo).
    Per quel che riguarda gli studenti dei corsi di Enologia, non posso che condividere il giudizio non lusinghiero espresso da tutti…pur con le dovute eccezioni (e non son poche). La mia esperienza in Sicilia mi ha fatto conoscere, ad esemio, ragazze uscite dallo Scientifico e iscritte a Enologia che ancor prima di laurearsi già lavoravano in importanti cantine, che si arrampicavano (con grazia tutta femminile, certo…) su per i contenitori, che se ne andavano nel fango a fare controlli in vigneto, che scaricavano trattori, che si assaggiavano decine di vini in laboratorio, mentre magari i colleghi maschietti se ne andavano in discoteca o al mare… Curiosità ed entusiasmo, questo fa la differenza. Certo, un pò conta anche l’Università. Ne conosco una dove non solo non viene proposto vino in mensa ma nemmeno viene fatto assaggiare (se non minimamente) nelle lezioni di analisi sensoriale….Altro che cento vini al giorno…
    Alberto

  8. Come si può evincere dal dibattito (e in questo caso mi riferisco alle guide e a quanto ci sta intorno) per ogni cose esiste una qualità e una quantità. Per semplicità siamo sempre abituati a lavorare in sistema binario, vale a dire "è, non è", ma in realtà ogni cosa è dotata di un peso. Così sono convinto che le quide potrebbero essere molto più rispettose del consumatori e dei produttori se chi le fa non vivesse nella nescienza (o si deve parlare di ignoranza?) dei meccanismi che regolano la percezione e la misurazione della stessa, nonché dei metodi per valutare un risultato. Ancora peggio, ma questo non è il mio campo, è quando esiste la malafede. Quindi sono sostanzialemnte d’accordo con quello che hanno detto Lizzy e Alberto, ma c’è ancora un elemento che manca. La grande Ildegar von Bingen scriveva che ogni cosa ha una sostanza, un significato e un soffio. Con l’analisi sensoriale alcuni operatori stanno solamente cogliendo la sostanza dei vini, noi (orgogliosamente, non presuntuosamente) pensiamo di riuscire a cogliere anche il significato, ma per il soffio (è quella percezione extrasensoriale di cui parla Alberto) mi sa che ci vorrà ancora un po’ di tempo.
    Per quanto riguarda i futuri enologi, per favore non toccate in questo modo i ragazzi. Io insegno in due corsi di laurea in viticultura ed enologia e già si vedono nette differenze tra di essi, quindi vuol dire che la colpa/merito non è degli studenti, ma principalmente del corpo docente. Per quelli della mia età diventa logico ripercorrere con la memoria gli anni che sta attraversando la generazione che mi segue. Ebbene, quando ero alla Scuola Enologica, avevo la fortuna di confrontarmi con un bicchiere in mano con personaggi come Felice Cavallotto (professore di enologia pratica che di un vino sapeva descriverti l’anima), o con Maurizio Chiappone, poi diventato un pezzo grosso alla commssione agricoltura dell’Unione Europea. Bene, fate l’inventario della preparazione enologica dei professori di enologia dei 17 corsi di laurea e verificate dove gli studenti hanno simili possibilità (non che non esistano, sia chiaro). Logicamente sono d’accordo che oggi molti vengono a fare enologia per i motivi citati da Riccardo e da Lizzy, ma arrivano in università ancora ragazzi, è davvero impossibile trasmettere entusiasmo perché non sono motivato o il motivo va ricercato nell’entusiasmo/competenza che hanno i loro insegnanti?

  9. Caro Luigi,
    tu mi sposti il tiro sulla qualità degli insegnanti…
    Sono d’accordo con te, la qualità di un futuro professionista dipende anche dai docenti che incontra. Ma quanto dipende? Secondo me, è più importante la motivazione dello studente. Che non è obbligato a subire passivamente “quel che passa il convento” (leggi l’Università): se i prof. non si dimostrano all’altezza delle sue aspettative, può sempre provare da qualche altra parte. Quando studiavo a Padova, avevo delle esigenze culturali un po’ sofisticate, molto specifiche, che non sempre il mio corso di laurea riusciva a soddisfare. Perciò i docenti e i corsi “su misura” me li andavo a cercare, anche presso altre facoltà.
    Se un ragazzo è davvero motivato e si trova di fronte dei maestri mediocri, va a cercarsene degli altri; è quando si incontrano le due mediocrità (studente+professore) che la situazione si fa disperante… E in alcuni casi reali questo sta già succedendo.
    Se poi aggiungiamo che stanno cercando di smantellare le vecchie scuole di enologia (vi rimando ad un mio post, http://www.tigulliovino.it/vinopigro/2006/05/giu_le_mani_dalle_scuole_di_en.html#moree scusate lo spot autopromozionale!) , concedetemi un briciolo di pessimismo…

  10. Lo spot autopromozionale a Lizzy è concesso più che volentieri. Per forma mentale sono quanto mai avverso alle regole, alle ricette, ai pregiudizi, pur essendo anch’io, per cultura, assogettato quasi inconsapevolmente alla saggezza dei popoli (i proverbi). Ma tra questi ce ne è uno che mi ha sempre suonato ipocrita: chi si loda si imbroda. Nell’ultima declinazione comprende anche il divieto della pubblicità verso quello che si fa: io invece sono sicuro che s euno fa qualcosa con convinzione lo deve far sapere agli altri.
    Ma c’è un’altra cosa tra i post della Lizzy che devo riprendere, che messo in chiusura quasi mi era sfuggito … i venditori del vino. Ho avuto occasione, soprattutto attraverso i corsi di interazione sensoriale che – tirando in ballo l’analisi sensoriale, l’analisi transazionale, la programmazione neurolinguistica e la semiotica – insegnano a vendere utilizzando come mezzo di comunicazione (e non come oggetto del contendere) il prodotto, che il ino ha davvero bisogno di riqualificare la propria forza vendita. E questo non perché non ci siano ottim personaggi che fanno questa nobile professione (nasco anch’io come venditore), ma perché è cambiato più velocemente l’identità del vino di quanto non sano cambiati i mezzi per proporlo. Oggi i venditori vanno a fare i corsi per sommelier per essere alla pari con i loro clienti – e questo è ottimo – ma non dispongono di strumenti che li aiutino a discriminare il loro vino rispetto a quelli dei concorrenti. Qualche giorno fa in un’azienda che aveva appena terminato di elencarmi i blasonati tecnici agronomi, viticoli ed enologi ho domandato chi fosse il consulente di marketing e il trainer della forza vendita lasciando la mia carinissima interlocutrice senza risposta. E lo stesso le capitò quando chiesi qual’è l’identità dell’azienda e la personalità percepita dai clienti.
    Insomma, spazi di migliorameni per fare il vino migliore ce ne saranno sempre, anche perché il consumatore cambia più velocemente di quanto noi possiamo innovare le tecnologie, ma la struttura commerciale dell’azienda è quella che manca oggi, più di ogni altra area, di ristrutturazione.
    Forse proprio le scuole di enologia potrebbero dare una mano in questo: chi l’ha mai detto che un enologo debba solo fare il vino?

  11. Oddio, Luigi, è vero che un enologo il vino potrebbe anche andare a venderlo, e infatti qualcuno – soprattutto tra i neo-laureati – ha scelto proprio questa strada, ma…
    non ti parrebbe un po’ sprecato? E’ come se un medico andasse a fare l’informatore farmaceutico. Non è certo una professione di serie B, ma dubito che a spiegare i principi attivi del Biostim piuttosto che quelli dell’Acintor si renda giustizia alle proprie conoscenze medico-chirurgiche (anche pratiche) acquisite in molti anni di studio…
    sinceramente, preferirei che a fare il vino continuassero a pensarci gli enologi diplomati-laureati (percorso: scuola di enologia – laurea). Farlo bene oggi è forse più difficile che in passato. Lo stesso dicasi del venderlo, un aspetto che va sempre più “professionalizzato”; la buona volontà, l’entusiasmo, la passione non bastano più. Occorrono anche competenza – in tanti settori, non solo quelli tecnici – e flessibilità.
    E se vogliamo continuare a girare il coltello nella piaga, diciamo pure che anche comunicarlo non è mica uno scherzetto da poco, nel quale ci si può improvvisare solo perchè fa moda…

    Lizzy

  12. Riccardo Modesti

    Un mio esimio professore universitario ritiene che il vino sia più facile farlo che venderlo, e coerentemente spinge sull’acceleratore in questo senso, avvertendo i futuri potenziali laureati che sarà molto difficile che possano andare a fare il vino da tre bicchieri (causa saturazione) ma che dovranno piuttosto pensare a guardarsi attorno nel ramo marketing.
    Per quanto riguarda il rendimento dei neolaureati, beh, se vi raccontassi cosa ho visto in questo primo anno che ho frequentato molto e faticato altrettanto si potrebbero capire molte cose relativamente al loro grado di preparazione quando escono.
    Aggiungo anche che un’impostazione triennale per un corso di laurea di questo tipo è assolutamente demenziale.
    Comunque la piega che ha preso questa discussione è interessante. Bravi tutti!!

  13. Caro Riccardo,
    mi piacerebbe sapere qualcosa di più di quello che tu pensi sulla triennale, perchè potrebbe essere utile a tutti. E vorrei anche chiederti se tu ritieni che le lauree in viticultura ed enologia siano uguali ovunque o si possano fare delle differenze. In ogni caso cercherò di fare intervenire sulla discussione qualcuno che in materia ha autorità e responsabilità …

  14. Riccardo Modesti

    Un giudizio finale lo potrò dare solo al termine del triennio…
    Le cose che saltano subito all’occhio sono però che:
    – solo la buona volontà del singolo docente permette di dare qualità al corso, di inserirlo in un contesto logico, di valutare gli studenti in modo corretto (alcuni esami sono cosa poco seria e però legati a materie chiave);
    – una specializzazione come viticoltura ed enologia mira ad abbracciare una serie così ampia di argomenti che tre anni, francamente, sono davvero pochini per fare le cose sul serio (ne risentono anche le attività di laboratorio);
    – il numero chiuso sarebbe opportuno, non è una facoltà di interesse sociale tale da giustificare un centinaio di frequentanti (come nella mia esperienza personale);
    – se proprio si deve dare un pezzo di carta al termine del terzo anno è FONDAMENTALE che i corsi del primo anno, cioè la base, siano già focalizzati verso l’obiettivo, e non fatti in modo generalistico;
    Rispetto ad altre facoltà non ho termini di paragone precisi ma solo dei “si dice che”. Di sicuro non è facile imbastire un corso di studi di questo tipo, perché bisogna prendere persone che sappiano calarsi nel contesto e bisogna farle cooperare (segue risata…).

  15. Eli

    Il Panorama dei neo – laureati è veramente triste!
    E ancor di più il Sig. Riccardo che si permette di usare l’appellativo “insipiente” nei confronti dei propri compagni di corso.
    Valido consiglio potrebbe essere quello di investire le energie che ora sta impiegando nella critica, per aiutare quelli che dovrebbero rimanere a bere acqua e soft drink a imparare quanto di bello ci sia dietro una bottiglia di vino!
    Del resto anche “biasimare” fa trendy…

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