Ricerche di mercato, tendenze sensoriali, nuovi metodi e analisi di prodotti
 

I torrefattori? Si stanno rifacendo il brand (e gli piace)

Girando per il Salone Internazionale del Caffè che si è da poco concluso a Milano non si impiegava molto ad accorgersi che la parola d’ordine che girava tra i torrefattori era “brand”. Parola declinata nei modi più disparati: stiamo rifacendoci il brand, in futuro lavoreremo sul brand, la via che abbiamo scelto è il brand. 
La politica di brand è indubbiamente l’oggetto principale del marketing moderno. Una marca che non acquisti visibilità, notorierà e autorevolezza sufficienti e di un certo profilo è certamente destinata a scomparire. Questo specialmente nel mondo del caffè dove la piazza è affolata da centinaia di referenze in Italia e migliaia a livello globale. Un rigorosa e sano lavoro sul brand è quindi un obiettivo cui nessuna direzione marketing può sottrarsi.
Nella mente di alcuni torrefattori però la politica di brand subisce una profonda riduzione di contenuti. La ricetta – ispirata da chi questo percorso l’ha fatto diventando un marchio di eccellenza nel mondo o portando gli italiani in paradiso attraverso la televisione – è presto detta: procurarsi un’agenzia per il restyling dell’immagine, aprire una scuola del caffè aziendale per fare colpo sui clienti e magari fare esporre ai clienti altovendenti un barattolo in latta da tre chili. Il tutto naturalmente condito da stand sempre più grandi nelle varie fiere, cataloghi ogni giorno più costosi, gadget di varia natura e così via.
Ecco che qui la buona politica di brand viene sostituita da un lavoro sulla marca che non la posiziona sul mercato con un’identità definita e forte, consentendole di godere di visibilità e di notorietà. Anzi, lascia il posto a tendenze pericolosissime. La  prima è un individualismo sempre più spinto, che sfocia talvolta nel macchiavellismo. Così che se un concorrente combatte una battaglia per il bene del settore è meglio non aiutarlo (la speranza è che si sfinisca prima). La seconda tendenza è che questa iperattenzione all’immagine assorbe risorse che dovrebbero invece essere rivolte a dare spessore all’azienda: ricerca, investimenti sulla qualità del prodotto e sulla qualità delle persone, venditori in primis. Da ultimo una scarsa attenzione al consumatore che si tenta di abbagliare, senza però farlo crescere puntando alla soddisfazione dei suoi bisogni e insegnandogli a riconoscere e a scegliere la qualità.
Da sempre il marketing è fatto di contenuti racchiusi in forme. Dal Sic di Milano siamo però usciti con l’impressione che una certa parte di torrefattori siano troppo assorbiti dallo studio delle forme senza contenuti. Belli senz’anima, insomma. Impressione fatalmente confermata da una domanda a bruciapelo a uno di loro: “Su che contenuti state basando il restyling del vostro brand?”. Risposta secca: “A questo penseremo in seguito”. Tu chiamali, se vuoi, dettagli.

17 commenti

  1. Sono pienamente d’accordo con te….
    La vanita’ di vedere esposto il proprio cognome su una latta da 3 kg. sopra a un macinadosatore caffè è inimmaginabile !
    Il contenuto della latta è indifferente visto che dovrà essere consumato da un pubblico per la stragrande maggioranza del tutto ignaro della Qualità del caffe’ espresso….
    Almeno questo è l’alibi favorito di chi del “Brand” ha fatto la sua filosofia di Marketing…
    Alla prossima
    Magda

  2. premetto che sono l’ultimo arrivato nel settore ma vengo da una lunga esperienza nel settore bar
    penso che il brand abbia grande importanza ma alla fine se la qualità non è all’altezza di soddisfare il cliente i torni non torneranno
    buon lavoro a tutti

  3. luigi secondo me il problema sta proprio nell’alfabetizzazione dei consumatori. Finchè il 90% metterà tre palettate di zucchero nel caffè non potremo fare alcun discorso interessante sulla qualità e il marketing e le latte da 4 kg saranno sempre un’arma vincente.
    nel mio ristorante dopo un corso alla mokarico (altra ditta che sul brand ha investito parecchio) ho tolto il caffè dai tavoli invitando i clienti a provarlo senza zucchero. Non ho cambiato miscela ma da allora ricevo una serie di complimenti sul caffè che prima invece tutti adducevano come grave pecca del locale.
    Certo il caffè va portato caldo al tavolo e il cameriere deve spenderci due parole in più, ma sono tutte guadagnate!
    E d’ora in avanti il caffè lo facciamo quando possibile servire dai sommelier e non dai camerieri normali.
    Perchè non lanci un sasso verso l’AIS???

  4. quando i consumatori veri di caffè cominceranno a volere ed a chiedere un ottimo caffè espresso e non un famoso caffè espresso e i torrefattori proporanno un ottimo caffè espresso e non un famoso caffè espresso , allora si potrà dare importanza al brand.
    un pessimo caffè con un noto brand, scusate ma non è interessante , è una presa in giro per tutti i consumatori .

  5. Giuseppe Di Pietro

    La complessità del commercio tende a poter disilludere su un motrimonio tra brand e qualità. Nella maggior parte dei casi questo connubbio avviene, perché investimenti e lavoro hanno quasi sempre grandi personaggi dietro. Io amo molto il brand di un marchio, ma poi…il barista, le sue mani e le sue capacità di esecuzione sono tutto il resto, vitali, emozionanti.

  6. L’azienda di cui faccio parte è da poco diventata associata dell’IIAC perchè la nostra politica primaria è la qualità del nostro espresso. Sicuramente il brand aiuta a farsi conoscere più velocemente ma è anche molto oneroso a livello economico e, se non lo gestisci per bene, puoi anche bruciare anni di duro lavoro.
    Vi garantisco che, da quando gestisco questa azienda, le mie soddisfazioni maggiori sono le telefonate o le mail che ricevo da consumatori sconosciuti che ci contattano solo per dire che facciamo un ottimo caffè.
    Ovviamente, in barba alle aziende con tanto di brand !!!!!

  7. Luigi Odello

    Tante belle osservazioni … che mi fanno venire voglia di rilanciare. Lo confesso: sono uno che crede nella marca, uno di quelli, forse dei pochi, che guarda l’insegna della torrefazione prima di entrare in un bar e che è capace di fare anche tre o quattro tappe prima di prendere il caffè se non trova il “brand” che gli dà un minimo di garanzia. Non di rado mi devo accontentare di entrare in un bar senza sapere quale miscela usa, perché è sempre minore la dichiarazione all’esterno del locale, ma per lo meno, evitando le insegne già censite tra quelle di qualità pessima, riduco le probabilità di spendere quasi un euro per farmi del male.
    Se i torrefattori investissero almeno il 10% dei budget destinati a dare valore alla marca nell’educazione del consumatore alla qualità, il ritorno che avrebbero quelli che la qualità la sanno e la vogliono fare sarebbe enorme. Ma, a quanto pare, la qualità percepita, non è uno dei valori che i torrefattori vogliono dare al brand. Troppo difficile. Non solo il caffè crudo cambia e ha prezzi molto diversi a seconda della qualità sensoriale potenziale, ma le miscele migliori sono anche le più difficili da trattare in macchina e quindi occorre armarsi di pazienza, buona volontà e risorse economiche per superare i reclami del barista, che vengono amplificati dai venditori, digiuni quanto lui di competenza e tendenzialmente pigri nell’imparare l’arte di fare un espresso. Siamo pratici, meglio andare sul sicuro: un bel Vietnam (Robusta) come base di miscela e la schiuma c’è anche se si sbaglia la macinatura. Ma visto che siamo qui che bisogno c’è di mettere ancora nella miscela qualche buon lavato? Si elimina prendendo così due piccioni con una fava: si riducono i reclami del barista pigro e pure i costi di produzione. Dopo un po’ che si fa la miscela così viene logico che si potrebbe migliorare ancora: le offerte sul mercato di caffè verde a basso prezzo sono allettanti, perché non provare a vedere se mettendone un po’ le cose vanno bene lo stesso? Così, passin passetto, ci si trova con una tazzina di espresso che inganna (gli sprovveduti) con la schiuma, ma accontenta solo i masochisti, quelli che amano avere la bocca rasposa, sentire il legno marcio, il pavimento di cantina umida, il vegetale della pirazina, il fenolico del tricloroanisolo.
    Ora, perchè non pensare a “rifarsi davvero il brand” attraverso un unico postulato: fare qualità e insegnare alla gente a riconoscerla? Forse perché biosgna crederci ed esserne capaci.

  8. Emilio Baqué Delás

    Entiendo el italiano pero no lo escribo. Excusas a todos.
    Hablar de brand y hablar de calidad del espresso no son cosas contrarias y deben convivir en la estrategia de la empresa.
    La marca debe transmitir unos valores y entre ellos, en mi opinión, está la de la calidad del espresso. El problema es cuando tras esa marca y esos valores no hay nada, todo es fachada. En definitiva: pan para hoy, hambre para mañana.

  9. Ammiro Luigi Odello per la buona volontà e anche perchè se tutti la pensassero come lui il caffè (in media, in Italia, a casa e fuori) lo si berrebbe migliore…
    E’ lodevole impostare la politica verso il “caffè buono” limitando al massimo i possibili scivoloni di un prodotto con una catena logistica che offre molte tappe di possibili peggioramenti qualitativo. E’ vero: un Espresso certificato (e verificato!) secondo i criteri -ad es.- INEI è comunque un buon prodotto e non una tazza che sa di “inguini mal lavati” (cito il commento su certe miscele dozzinali fatto da un “boutique roaster” veneto), ma la coscienza del consumatore è ancora lontana da percepire la qualità, particolarmente perchè non la conosce: in televisione è più facile vedere uno spot pubblicitario di qualcuno che ti dice che quel caffè è VERAMENTE BUONO piuttosto che un degustatore che ti spiega PERCHE’.

    In tutt’altro ambito, un film come “Super Size Me” (un ragazzo per un mese si filma mangiare tre pasti al giorno da McDonalds, finendo con valori ematici fuori norma) conferma che a una marca forte NON necessariamente equivale qualità a 360° gradi. Quindi il tema della “brand” dovrebbe spostarsi forse sul consumerismo, ma questo è veramente un altro discorso.

    Se rimaniamo sul tema della qualità del caffè, si tende a dimenticare quello della qualità della MACCHINA, in fin dei conti l’ultimo passaggio, quello che lascia traccia indelebile nella tazza di caffè. Di fatto per le macchine bastano le famose “4 emme” citate in molti libri (“Macinino, Miscela, Macchina” più la geniale categoria omnicomprensiva, un filo machista -e per me pure esoterica: il “Manico”).
    Personalmente le “4 Emme” non le compro più; le ho anzi tradotte in una versione più moderna (ormai son passati più di cent’anni dall’inizio -o quasi- dell’espresso, mezzo secolo da Achille Gaggia) che suona così: “MAI Menarsela Meno del Minimo”.
    A seguire.

  10. Gabriela Tirino

    Le tue osservazioni a partire dal mondo del caffè, mi potano a riflettere su un settore parallelo, che io conosco un po’ di più: il cioccolato. Tanto più che siamo in autunno e le fiere dedicate al “cibo degli Dei” si sprecano: sono tante, spesso en plen air e certi grandi stand avveniristici sono destinati al consumatore finale. Questa strana bestia.
    Alzi la mano chi non pensa subito a una marca o addirittura a un prodotto specifico, quando pensa al cioccolato? In certi casi il brand è talmente forte che non si ricorda nemmeno più l’azienda produttrice, perché la si identifica con il prodotto stesso.
    Il cioccolato, forse più di qualsiasi altra merceologia si presta a giocare questo gioco del brand: è un prodotto che ci riporta all’infanzia, ci coccola e fa presa facilmente sulle nostre emozioni più antiche. E spesso il gioco lo vince chi il brand lo cura, ma non fa cioccolato.
    C’è da dire che il mare dei consumatori di cioccolato è vasto e dicotomico: ci sono i “golosoni” e gli “intenditori” o presunti tali. I primi spesso confondono il cioccolato con gli snack o le creme a base cacao. I secondi spesso si vantano di consumare solo cioccolato artigianale, trascurando di sapere che gli artigiani usano coperture prodotte da grandi aziende. E c’è chi non considera cioccolato nemmeno un’impeccabile tavoletta al latte, prodotta con rarissimo cacao di Java. Eh si, quante volte sentiamo ancora dire, e purtroppo leggiamo, che il vero amante del cioccolato degusta solo il fondente, meglio ancora se ad altissimo tenore di cacao? E come non riconoscere l’abilità comunicativa di certe aziende che sono state capaci di costruire un brand forte, proponendo massa di cacao?
    Si, è vero, non si contano più oramai le occasioni di approfondimento su questo prodotto, le degustazioni guidate e le serate a tema. Spesso sono le stesse aziende produttrici che organizzano certi appuntamenti, affidando il pubblico a persone poco preparate, spesso della stessa forza vendita. Poi ci sono gli “esperti” improvvisati, che pretendono di spiegare il cioccolato con la storiella imparata a memoria dall’involucro di una tavoletta e magari non hanno mai visto una cabosse e vanno nel pallone alla prima domanda. E di domande sul cioccolato il consumatore ne ha, tante. E ha tanti pregiudizi, spesso dettati da certi messaggi pubblicitari d’effetto o da certi codici di assaggio “brandizzati”.
    Ma tra gli “intenditori”, quanti sanno rispondere alla semplice domanda “cosa significa fondente al 70, 80 o %” o “che cosa ha cambiato l’entrata in vigore del decreto sul 5% di grassi”?
    Negli ultimi anni ho avuto occasione di porre domande del genere a tanti e le risposte sono sconfortanti, ti assicuro.
    Se è vero che il consumatore in generale è più attento alla qualità, probabilmente non è altrettanto vero che la sappia riconoscere o che voglia su serio riconoscerla. Le informazioni da cui è bombardato sono tante, ma troppo spesso veicolate dai messaggi pubblicitari e dal potere dei brand più potenti.
    E mi chiedo: prima o poi il brand farà sul serio anche un po’ il teacher? O meglio: quando comincerà a interrogare il consumatore, rendendolo attore e non spettatore?

  11. Alberto

    Parlare di brand, anzi, no, di marca, visto che siamo in Italia, mi fa, alla luce di tanti risultati assaggiati sul campo, evitare i bar che espongono certe insegne, in luogo di altre. E’ efficace, devo dire.

    L’industria è ancora troppo legata al comodato di attrezzature, ai finanziamenti, a cose che dovrebbero fare le banche e non chi tosta Caffè. Questo, come ho già detto altrove su questo blog, fa calare per forza la qualità del tostato venduto in favore del profitto per rientrare dei “favori”, come li chiamano i baristi impelagatisi in queste faccende, a scapito della qualità finale.

    Caro Odello, io ho letto i Suoi libri sull’Espresso, ma Lei non mi convince sulla certificazione della tazzina. E sa perché?
    Perché una volta sono entrato in un bar, oggi chiuso, dove erano esposte le targhe dell’Espresso certificato, e mi sono visto preparare un ignobile brodo da una signora in età avanzata che poteva essere la madre del titolare. Al di là dell’accaduto, Signor Odello, esistono Torrefattori che usano prodotti migliori di molti facenti parte dei Caffè certificati, ma che sono superiori a queste pratiche. Hai la targa in negozio e sul grembiule? Il tuo è un ottimo Caffè. Non ce l’hai? Sei robaccia. Un po’ di discriminazione ce la vedo…

    Credo che la differenza non la facciano i distintivi, in questo caso, ma le persone e la loro voglia di fare bene un mestiere importantissimo, curando la scelta delle materie prime, facendo la periodica manutenzione alle attrezzature, regolando la macinatura in funzione dell’umidità del momento. Vedo come lavora la maggior parte delle persone, invece. Semmai introdurrei la certificazione del cervello, e della passione.
    Cosa ne dice? Un bel po’ di bar in meno, ma tanti migliori Caffè in più…

    Mi scusi, Odello, ma sono stanco di vedere gente che non gira nemmeno ad un chilometro dal problema… sarebbe ora che si dicessero le cose come stanno.

  12. Luigi Odello

    Grazie Alberto,
    e non dico grazie con il tono retorico di chi vuole accattivarsi un interlocutore che ha mosso una critica, ma è proprio un grazie sincero per la critica, che mi consente di parlare di Espresso Italiano Certificato.
    Penso che a qualcuno sia capitato di comprasi una macchina di gran marca che non andasse bene, persino la Mercedes mi risulta che qualche anno fa abbia avuto un problema su un modello. Quindi nessuno di noi – che abbiamo creduto e crediamo nell’Espresso Italiano Certificato – si è mai illuso che gli oltre 2.500 Espresso Italiano Specialist qualificati finora facciano il 100% dei caffè perfetti, nè che a un barista qualificato gli fosse fatto dono di evitare i bisogni fisiologici e quindi di assentarsi dalla macchina, come non abbiamo mai detto che al di fuori dell’Inei non esistano espresso eccellenti. Noi abbiamo semplicemente studiato l’espresso che desidera il consumatore (a oggi siamo a oltre 7.000 test eseguiti in Italia, Germania e Inghilterra), l’abbiamo descritto secondo le regole scientifiche dell’analisi sensoriale e abbiamo messo in atto le misure per poterlo ottenere con la più alta probabilità possibile. Come dire: di sicuro c’è solo la morte, ma nella storia dell’espresso chi ha fatto almeno altrettanto per tutelarlo e promuoverlo? Io ringazio Alberto quando parla della mia certificazione, ma in realtà non ho che una minima parte del merito e per giunta quello che ho fatto fa parte del mio lavoro. Il merito maggiore va alle aziende che hanno dato vita a questo progetto e alle altre che si sono unite: oggi sono 35 e il fatturato globale è di oltre 700 milioni di euro.

  13. Carlo Odello

    @ Alberto: mi occupo della comunicazione di Inei da più di due anni. Non c’è mai stata nessuna discriminazione nei confronti di chi non è certificato. Tanti colleghi giornalisti mi citano ottime marche che non sono certificate e io rispondo loro che sono ottime marche, che chiunque lavori per la qualità fa del bene al prodotto. Al di là del fatto di essere in Inei o no. Un merito però vorrei riconoscerlo a Inei: l’unico ad avere codificato scientificamente la qualità di espresso e cappuccino. e non mi pare poco.

  14. Alberto

    Certamente, cari Luigi e Carlo, INEI rappresenta un punto di riferimento nel caos generale in cui ancora tanto il pubblico quanto gli addetti ai lavori navigano. Le mie idee non collidono esattamente con le vostre, ma il mondo è bello perché è vario…

    Escludendo un momento l’INEI, parliamo di qualità. Amplio un post di Luigi poco sopra.

    Per il Caffè, il palato del pubblico è in mano alle grandi torrefazioni, le quali, con il contributo di testimonial rinomati, cercano di globalizzare il nostro gusto.

    Quando vengono usati crudi economici, di conseguente bassa qualità, per eliminare le caratteristiche negative vengono tostati a temperature elevate, fin quasi a carbonizzare i chicchi. Ovviamente rimane solo il gusto forte ed amaro della bruciatura. E questi sono molti dei prodotti che si trovano in commercio. Se vi pare Caffè… Peccato che tante persone lo vedano come il non plus ultra, fino a bocciare prodotti realmente meritevoli d’attenzione. Una Robustaccia con il doppio di un’Arabica di caffeina, retrogusti osceni, questa sì che è caffè (l’ho scritto di proposito minuscolo)! Ma per favore! Non ci siamo proprio.

    E i comodati? Il chicco che finirà in campana è assolutamente indifferente: basta che al bar ci siano le tazzine, la macchina, l’insegna, magari qualche mila euro per rifare il bancone, e via dicendo. Il Caffè viene mortificato perché mercificato, a queste condizioni.
    E’ sufficiente che si affacci una torrefazione con prodotti inferiori nella qualità, ma con un’offerta economica migliore per cambiare l’insegna in quel locale.
    Peccato che a molti baristi non freghi una cippa di guardare in campana…
    Non vi pare questo il vero male che affligge il buon Espresso?

    Il barista dovrebbe invece avere le attrezzature di proprietà per essere autonomo completamente dalle torrefazioni, e, in base ad assaggi mirati e corsi IIAC, stabilire quale o quali tipi di Caffè utilizzare, ed eventualmente sostituirli se diventano inferiori alla qualità percepita inizialmente.
    Così le torrefazioni a profitto la smetterebbero di fare i loro comodi, ed alzerebbero la qualità dei prodotti per non perdere i clienti.

    Non voglio fare ancora polemica circa le certificazioni INEI, ma vi lancio altri elementi di riflessione:

    – se vengono usati prodotti di qualità indiscussa, in singola origine o miscela, macinati magari al momento e con opportuna regolazione, nella giusta dose, estratti nella tazzina giusta nella forma e nella temperatura, in macchina ben controllata e pulita (e tutti gli altri parametri necessari), il risultato sarà con altissima probabilità un ottimo Espresso,

    – anche per il cappuccino, esistono forse persone che non usano il latte intero di alta qualità, che lo fanno bollire, che non puliscono la lancia vapore dopo ogni uso? Purtroppo sì, e ne vedo spesso. Ma questi dovrebbero fare i calzolai o i fruttivendoli, non stare dietro ad un banco bar! Credo che una persona assennata, per servire un prodotto di qualità, eviti queste porcherie…e se non sarà un risultato certificabile, ci mancherà molto poco;

    – La passione, l’interesse per il proprio mestiere, la convinzione che non si è mai finito d’imparare, e la voglia di mettersi in gioco, unite ad un po’ di modestia, non dovrebbero essere permanentemente nel DNA di ciascun barista/operatore di macchina?

    Se quanto ho appena “espresso” viene ignorato dagli addetti ai lavori, possiamo sederci sotto un albero a fare un picnic, che è meglio…

    Saluti e buon proseguimento.

  15. Marco Paladini

    La passione, l’interesse per il proprio mestiere, la convinzione che non si è mai finito d’imparare, e la voglia di mettersi in gioco, unite ad un po’ di modestia, non dovrebbero essere permanentemente nel DNA di ciascun barista/operatore di macchina?

    Parto da questa frase che vale per tutti e per tutte le attività/azioni nella vita che facciamo.

    Inei si impegna a trasmettere questa cultura.
    La sua formazione, centrale del progetto, aiuta a riflettere su “falsi valori” dati per scontati.

    E questo è forse il miglior lavoro svolto da Inei nei confronti del mercato.

    Qualcuno apre gli occhi; la maggior parte ancora no.

    Purtroppo, come la nazionale di calcio, ci esprimiamo al meglio quando siamo obbligati a non sbagliare, all’ultimo minuto.

    Il mercato nazionale Ho.Re.Ca. del 2008/09 subirà gli influssi di Basilea2, che rastrellerà tanta liquidità ai nostri cari baristi; e solo allora, si sveglieranno e si chiederanno come fare.

    Purtroppo per molti e per fortuna per pochi, chi avrà trasformato/adeguato ai tempi la sua azienda, crescerà ancor più velocemente e il divario sarà enorme, per molti insostenibile.

  16. rosy

    chiedo scusa ai signori di sopra,ma mi sembra che piu che parlare di qualità abbiano fatto una publicità al proprio marchio dimenticando del discorso iniziale,credo che il cliente che vada al bar a prendersi un caffè voglia prima di tutto la qualità e non il marchio io bevo un buon caffè ..poi dico caspita che meraviglia poi se mai chiedo la marca e vi dico che è da molto che non bevo al bar un buon espresso tipico italiano,ma mi sono munita a casa di una eccellente machina da espresso dove bevo un buon caffè..raga tutto è diventato busines credo che la qualità del prodotto soddisfare il cliente debba essere la prima meta.

  17. in un mio viaggio in Italia sono andato a comprare da vari torrefattori dei caffé per analizzarlo qui in Messico,
    ed ho anche comprato qualche kilo nei supermercati (4 euro kilo)
    il risultato che la maggior parte dei caffé 80%/90% era solo robusta, altri 50/% robusta, molti pochi 30% robusta
    a parte delle miscele poco equilibrate, assaggiando molti caffé si percepivono mille difetti (piú volte menzionate da Luigi).
    quale qualitá ? i caffe conosciuti mondialmente negli assaggi risultano i peggiori, quelle delle piccole torrefazzioni sono molto alterni, penso sopratutto per molti di loro non conoscera la materia…
    mi domando una cosa, ma questi torrefattori sanno veramente assaggiare il caffé?
    credo proprio di no, altrimenti certi crudi nemmono li comprerebbero.
    In conclusione solo pochi sanno assaggiare un buon caffé e di conseguenza possono servirlo a loro clienti.
    Le insegne fuori dai locali non servano a niente anche perché mi é capitato di entrare in un bar con una insegna e vedere riempire il macinadosatore con un’altra marca.
    ragazzi é dura….

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