Ricerche di mercato, tendenze sensoriali, nuovi metodi e analisi di prodotti
 

Pane al pane, vino al vino

Estate, tempo di vacanze. Non è raro trovare nel semplice e omologato supermercato strani personaggi che in bermuda, rossi come pomodori maturi, chiedano al commesso del banco salumi che sapore abbia quell’insaccato piuttosto che quel bellissimo formaggio pasta gialla. Quasi sempre la risposta è la seguente: “È buono, è una produzione locale, non lo trova da nessun’altra parte”. Davanti a un naso per aria che tenta di capire dove collocare “il buono” nella sua mappa dei sapori, al commesso non rimane altro, se dotato di gentilezza estrema, che farglielo assaggiare e sperare che ciò che offre incontri il gusto del suo probabile acquirente. Peggio andrebbe se si volesse anche capire perché quel particolare prodotto porta quel nome. Spesso il nome racchiude il sapore, basterebbe infatti anche solo saper spiegare l’origine semantica per andare oltre un generico “è buono”.

I commessi più diligenti danno invece una descrizione sensoriale dettagliata, spiegando quanto un prodotto in bocca sia più o meno gommoso piuttosto che croccante, dal gusto delizioso o anche accattivante oppure, nella peggiore delle ipotesi, per essere politicamente corretti, il gusto si trasforma in “particolare” dal retrogusto persistente. A questo punto il nostro turista per caso potrebbe trovarsi nel piatto un orecchio di elefante stufato o al pari una croccante sfoglia di pane carasau.

Se poi parliamo di vini, basterebbe leggere o guardare programmi dedicati, condotti da noti personaggi. I vini rossi sono delle bevande caratterizzate di default da un naso più o meno ricco, spalla larga e una bocca importante equilibrata e snella, ma che talvolta può essere croccante e fresca. Certamente il fruttato domina con i frutti rossi e la marasca ci sta sempre bene. La brezza di montagna aiuta così come qualche fiore di campo.

I vini bianchi hanno un naso elegante e una vivace freschezza. Il palato è semplice o magari la bocca è importante e minerale. Il fruttato riporta i frutti a pasta bianca, un po’ di grafite e magari salvia e rosmarino, bellissima acidità e infine buona persistenza.

Per narrare il gusto però bisogna saper guardare, annusare e assaggiare, atteggiamento forse usuale ma dall’esito singolare. La capacità di raccontare sapori e cultura è il frutto di un vissuto che non si sottrae da ciò che ordinariamente è detta formazione, ma se parliamo di gusto e se la formazione risponde alla grammatica sensoriale di ordinario c’è poco e di straordinario tanto. Il percorso didattico dei narratori del gusto risponde alla necessità di ciascuno, sia che lo si faccia per diletto o per professione, di trasferire contenuti sensoriali in modo trasversale, attraversando i limiti linguistici e incontrando e dialogando con le esperienze sensoriali oltre i limiti del buono o del cattivo imbattendosi nelle radici del gusto.

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