Ricerche di mercato, tendenze sensoriali, nuovi metodi e analisi di prodotti
 

Addio tipicità?

27 esperti di vino (sommelier, enologi e assaggiatori): un Oltrepò Pavese Doc Barbera è stato identificato correttamente solo dal 14% dei degustatori. Sotto l’aspetto del vitigno è stato rilevato come Lambrusco  (25%) e Bonarda (15%), ma anche come Sangiovese, Brachetto, Cabernet, Marzemino e altri ancora. La regione di attribuzione va di conseguenza: il 40% dei giudici l’ha collocato in Emilia e solo il 25% in Lombardia.

Peggio è andata a una Barbera d’Alba Doc: nessuno ha attribuito il vino a tale denominazione, né al vitigno, né alla regione. Interessante notare che non è mancato chi l’ha presa per un Brunello, mentre a livello di vitigno si sono pareggiati i giudici che l’hanno fatto derivare dal Sangiovese con quelli che hanno sostenuto l’Aglianico come genitore. Gli altri si sono dispersi tra Primitivo, Negramaro, Merlot e Cabernet.

La stessa sorte – ma questo è già più comprensibile – è toccata a un Solopaca Sannio Doc rosso: zero identificazioni. In compenso a qualcuno è parso trattarsi di Sangiovese, mentre altri hanno propeso per Cabernet, Merlot, Dolcetto e vari ancora. Come area di produzione è stato quindi collocato principalmente in Toscana, a seguire in Piemonte.

Un Valtellina superiore Docg Sassella è stato identificato correttamente solo dal 4% dei degustatori, ma il 30% ha azzeccato il vitigno. È stato il risultato migliore.

Potremmo continuare con quanto ottenuto da ricerche che stiamo eseguendo da anni e che mettono in evidenza che ai bianchi non va meglio, ma ci pare inutile portare dei dati che sistematicamente confermano un discorso: per denominazione i vini non sono omogenei e lo stanno diventando sempre meno. Possiamo comprenderne il motivo: io produttore devo rendere il mio prodotto diverso da quello dei competitor della medesima zona per acquisire vantaggi competitivi sul mercato. Quello che non può fare il territorio lo fa l’agronomo in vigneto e l’enologo in cantina.

A questo punto però sorgono molti interrogativi: che senso ha parlare di tipicità nelle scuole di degustazione e nei disciplinari di produzione? Stiamo compiendo un tradimento nei confronti del consumatore che quando compra una bottiglia di una determinata denominazione vuole trovare una rispondenza con le attese sensoriali che si pone? Tutta l’impalcatura sulle indicazioni geografiche è da rivedere per dare a esse un valore capace di andare oltre la carta? È ancora valida l’enografia come viene espressa oggi?