Ricerche di mercato, tendenze sensoriali, nuovi metodi e analisi di prodotti
 

Una mineralità pura e cristallina

O è cambiata l’enologia e non ce ne siamo accorti o c’è un abuso del termine della mineralità nella descrizione dei vini. Propendiamo per la seconda ipotesi, soprattutto se il narratore (assaggiatore o sommelier che sia) sa che il vino in questione proviene da terreni di origine vulcanica. A volte ci siamo un po’ divertiti chiedendo al percettore della straordinaria caratteristica sensoriale di descrivercela.

Non è mancato chi ci ha citato la pietra focaia, la mina della matita e il fiammifero di legno che si spegne sotto l’effetto di un refolo di aria, ma altri hanno parlato di salinità, distinguendola a volte in pura e amara. In poche parole le idee sulla mineralità sono tutt’altro che precise. Si rischia di emulare il fenomeno della pipì di gatto, obbligatoriamente percepita se si sa che si tratta di Sauvignon, anche quando non c’è. La parentela con il citato sentore potrebbe essere fornita dalla ricerca che ha messo in evidenza che un tiolo (composto solforato) potrebbe essere così percepito al naso anche se presente a concentrazioni di 0,3 nanogrammi per litro.

Comunque la mineralità è probabilmente un evento sensoriale ben più complesso che interessa l’olfatto, il tatto e il gusto. Sicuramente è una caratteristica che fa fine chi la cita, ma è davvero presente in così tanti vini e, soprattutto, è legata a un certo suolo?