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Che schifo gli spinaci: quando sensibilità e gusto sono due concetti separati

shutterstock_67879747Mangiare il gelato al cioccolato a cucchiaiate ci rende felici e masticare spinaci bolliti ci intristisce: non possiamo dare più tutta la colpa per i nostri chili di troppo all’educazione ricevuta dai nostri genitori e dalle nostre scuole. Loro ce l’hanno messa tutta per farci mangiare le verdurine, frullandole, camuffandole, componendole a forma di macchinina, ma c’è poco da fare: la tendenza a rigettare i cibi amari o acidi, così come gli odori della putrefazione, è innata e ci ha protetto per secoli da cibi avariati e tossine mortali.  Adesso, tuttavia, questa sensibilità contribuisce al diffuso disgusto dei bambini e molti adulti per i vegetali, causando un abbassamento della qualità nutrizionale della nostra dieta.

Potendo scegliere, siamo geneticamente portati per i cibi dolci, calorici, dai profumi fruttati che ci appaiono, appunto, piacevoli. Queste predisposizioni sono valide per tutti, ma non mancano naturalmente le differenze tra i singoli, sia verso cibi specifici che in generale nella tendenza a essere schizzinosi o neofobici.

Ebbene sì: anche essere sospettosi e esigenti nelle scelte alimentari è scritto nel nostro DNA e rende alcuni curiosi di provare le cavallette al cioccolato, altri restii ad assaggiare una banale pasta al sugo un po’ particolare.
A queste innate difficoltà a adattare i nostri gusti alle raccomandazioni del dietista si aggiunge il fattore culturale. Le nostre preferenze sono infatti caratterizzate da una certa malleabilità: il rifiuto verso un alimento può essere ridotto se non addirittura invertito, permettendoci ad esempio di assaporare con gusto un formaggio che, avvicinandolo a occhi chiusi, ricorderebbe dei piedi sudati, o di provar piacere mentre del cioccolato amarissimo ci si scioglie in bocca.

Per ottenere questo risultato sarebbe necessaria un’esposizione graduale e guidata ai nuovi sapori, creando esperienze sensoriali che ci rendano aperti verso il nuovo fin da piccoli. Rimane la domanda: i nostri genitori  sono educati a educare?

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