Sensory News

Ricerche di mercato, tendenze sensoriali, nuovi metodi e analisi di prodotti
 

Per l’export attenti all’amaro

Il sapore amaro della vita grama, l’amarezza di una sconfitta, la fine di una relazione che lascia l’amaro in bocca: insomma, sembra proprio che tra i sapori l’amaro sia la pecora nera. E forse non a torto, perché questa percezione è determinata da sostanze che sono o potrebbero essere nocive per la salute. Hanno infatti sapore amaro gli alcaloidi (caffeina, nicotina ecc.), molti metalli (bastano 5 milligrammi litro di rame in una acquavite per percepire l’amaro), gli alcoli superiori e i polifenoli.

Pare quindi che questo sapore possa davvero essere considerato la sentinella del gusto capace di generare un’allerta verso un determinato atto di consumo. L’effetto è simile per l’umanità intera, ma età, cultura e conoscenze, nonché la predisposizione individuale, ne determinano la sensibilità e quindi la tolleranza. Pare certo che questa aumenti con il passare degli anni, con la consapevolezza della scelta (chi desidera un amaro sa che sarà ben presente questo sapore), ma molte volte, all’atto dell’immissione di un prodotto su un mercato, non si pensa alla sensibilità di quella popolazione.

L’argomento sta tornando di attualità oggi per il crescente interesse di prodotti come il vino e il caffè in Cina. Gli orientali in genere sono molto sensibili all’amaro, i cinesi in modo particolare. Se una della barriere nel passaggio dal te al caffè è rappresentata dall’amaro, per quanto riguarda il vino il problema è che lo vogliono rosso, e magari barricato: due fattori che accentuano una caratteristica indesiderata.

Un ottimo sistema per verificare il gradimento di caffè e vini è sicuramente costituito da un test sui consumatori. I banchi di assaggio degli ultimi anni eseguiti nelle più grandi città dell’estremo oriente hanno dato grandi informazioni a costi decisamente bassi.

Ma voi sapete fare twit?

Si, lo so, lo immagino. Avete la percezione che Facebook abbia sostituito la riunione delle comari in un quartiere di Napoli e che Twitter sia l’espressione moderna del diario di adolescenziale memoria. Forse è così. Ma Facebook ha un miliardo di utenti nel mondo e Twitter 4 milioni solo in Italia. Poi ci sono i social network più professionali e quelli dedicati ai cuori solitari. Lasciamo perdere questi ultimi, ma quanti di voi conoscono la grammatica dei social network? Quanti sanno utilizzarli correttamente?

Il giorno 20 novembre al Centro Studi Assaggiatori avremo Barbara Sgarzi, nostra collega nei Narratori del gusto, giornalista e massima esperta del settore che ci parlerà di argomenti che sono oscuri persino nel nome:

  • il Cluetrain Manifesto: l’apertura di un’azienda ai suoi clienti-utenti;
  • la comunicazione sul web: i target, gli obiettivi e gli strumenti giusti per raggiungerli;
  • la scrittura online: la piramide rovesciata, elementi di stile e microstile
  • i social media: cosa fanno gli altri, come usarli e come non usarli;
  • Facebook: evoluzione, timeline, privacy;
  • Twitter: la grammatica fondamentale, la credibilità, la personalizzazione, la sintesi e il microstile;
  • Pinterest e Instagram: i social network per immagini;
  • Foursquare: la geolocalizzazione sociale;
  • Content Curation: selezionare e aggregare i contenuti di valore in rete nostri e altrui;
  • Storify: costruire una storia online.

Se vi è venuta voglia di partecipare, dato che l’analisi sensoriale non è avulsa dagli effetti che stanno avendo i social network, scrivete a carlo.odello@assaggiatori.com e riceverete tutti i dettagli del corso. Così saprete anche voi fare twit senza stonare.

Il senso comune della qualità

Se mi avessero detto che 26 giudici provenienti da 11 nazioni diverse (Giappone, Svezia, Danimarca, Italia, Russia, Spagna, Slovenia, Australia, Cina, Stati Uniti, Taiwan) potevano trovare un accordo statisticamente provato nella valutazione di 113 caffè provenienti da 13 nazioni non ci avrei creduto. Invece le commissioni dell’International Coffee Tasting hanno raggiunto risultati di attendibilità insperati. A differenza dei comuni concorsi quello del caffè prevede infatti che i risultati siano validati attraverso i metodi incrociati insiti nel Big Sensory Soft che, per ogni set di assaggio, esegue ben 40 elaborazioni diverse. Mediante queste, tra l’altro, si misura l’efficacia dei giudici (quindi si possono eliminare quelli insufficienti rendendo più certo il risultato finale) e si verifica l’attendibilità del dato attraverso la convergenza dei giudici su tutti i descrittori e per ogni campione. Normalmente si ritiene già molto buona l’attendibilità quando raggiunge il 90% (significa un accordo sul 90% delle valutazioni espresse) e quindi ha fatto un poco strabiliare che in un buon numero di test le commissioni abbiano superato il 95% e addirittura in alcuni abbiano fatto registrare un 100%. Tra un cinese e uno spagnolo c’è una differenza enorme nella percezione: quello che per un iberico ha una punta di amaro per un cinese rischia di essere amarissimo, insopportabile. Questo solo per fare un esempio, perché se dovessimo analizzare tutti i descrittori gustativi, tattili e olfattivi la narrazione, seppure interessante, diventerebbe troppo lunga.

A cosa è dovuta la straordinaria collimazione che abbiamo avuto modo di rilevare durante l’International Coffee Tasting? Qualche ipotesi la possiamo formulare. Tutti i giudici erano assaggiatori dell’Istituto Internazionale Assaggiatori Caffè, tutti sono stati formati con gli stessi campioni di caffè, la medesima scala, la stessa scheda e la medesima didattica.

Ecco come si può fare per rendere l’analisi sensoriale uno strumento di misurazione precisa e oggettiva. Ovvio: stiamo parlando di descrittori oggettivi in quanto fortemente correlati con una realtà fisica. Se entriamo nel campo dei descrittori edonici, quelli che si utilizzano per esempio anche nei concorsi dei vini (finezza, franchezza, equilibrio ecc.) la situazione cambia un po’. Ma anche qui abbiamo notato alcune convergenze interessanti: per esempio l’espresso, eseguito con le regole dettate dall’Istituto Nazionale Espresso Italiano, ha goduto di una notevole confluenza di giudizi, magari con qualche esasperazione in più degli asiatici su alcuni odori biochimici. Perché loro alcuni odori, come per esempio il putrefatto, il fermentato, la muffa e il legno marcio, proprio non li sopportano.

A Oscar Farinetti non piace, ma l’analisi sensoriale sta diventando di moda

Oscar Farinetti in un’intervista non ha fatto mistero del fatto che a lui l’analisi sensoriale non piace. Ma non abbiamo capito quale non gli piaccia. Perché oggi quando si parla di analisi sensoriale occorre identificare l’accezione con cui viene intesa. Come sempre succede, quando nel mondo qualcosa diventa consunto per il troppo uso, chi desidera comunicare di essere innovativo molte volte lo chiama diversamente, ma in realtà fa esattamente quello che faceva prima. Così oggi abbiamo noti recensori di vini che dicono di fare analisi sensoriale operando come giudici monocratici e valutando i prodotti con tanto di etichetta, comunicatori che si proclamano esperti di analisi sensoriale perché trattano delle caratteristiche organolettiche di cibi e bevande, organizzazioni che chiamano “analisi sensoriale” semplici degustazioni.

Insomma: l’analisi sensoriale è di moda. Persino l’Unione Italiana Vini, dopo avere per anni ignorato la nostra disciplina, ha inventato un’accademia sensoriale e uno degli ultimi numeri del Corriere Vinicolo riporta in apertura: “L’analisi sensoriale nuova frontiera del marketing – Vittima nel settore vino di una diffusa superficialità, oggi questa disciplina sta scoprendo nuove applicazioni, soprattutto in Australia e Stati Uniti. Dove sempre più aziende incominciano a tarare il prodotto coinvolgendo il pubblico prima che esca sul mercato. A Porto invece la utilizzano per certificare i vini Dop. E in Italia?”

Se è tragico scoprire che la più grande organizzazione del settore ignora che da anni si sta utilizzando nel marketing anche in Italia e che il primo vino ad avere avuto una certificazione sensoriale non è il Porto ma l’italianissimo Valcalepio, questa conversione non può che farci piacere.

Ma quando si può parlare di analisi sensoriale e quando invece di assaggio e degustazione? Si parla di analisi sensoriale quando c’è un disegno sperimentale preciso tendente a rispondere a una domanda sulla percezione di un prodotto e una conseguente elaborazione dei dati capace di validare i risultati ottenuti. E’ vero, anche noi siamo peccatori, perché parliamo di analisi sensoriale anche quando usiamo le tecniche di questa disciplina a rovescio, per aprire la mente alla gente, per farla giocare, emozionare, appassionare a un prodotto o a un territorio, come per esempio succede con i Narratori del Gusto. Ci permettiamo di commettere questo piccolo errore di forma solo perché le tecniche che utilizziamo sono le stesse che impieghiamo nella descrizione e nella misurazione delle caratteristiche di un prodotto.

E, per tornare a Farinetti, una domanda ci viene spontanea: perché se non gli piace l’analisi sensoriale ha ricevuto nella sua Fontanafredda un gruppo di giornalisti riuniti per fare un corso per Narratori del gusto? Forse non gli piace l’analisi sensoriale che fanno gli altri, non la nostra. Se così è ne siamo felici.

Guida Vini Altroconsumo 2013: la credibilità

Per anni abbiamo analizzato le guide ai vini del nostro Paese per poi tracciare resoconti dettagliati e supportati statisticamente da pubblicare sulla rivista L’Assaggio. Abbiamo fatto scoperte interessanti: mostri di bravura nella degustazione (capaci di valutare oltre 400 vini in una giornata), la concentrazione della qualità in alcune regioni o in alcune cantine, a volte una notevole fantasia nei metodi di attribuzione dei premi. Raramente le guide hanno considerato il nostro sforzo di analisi, come se non sentissero il sentimento di responsabilità che hanno nell’orientare il consumatore e nella generazione di un differenziale competitivo tra i produttori. In fondo sono stati proprio questi ultimi a decretare il loro successo: non c’è azienda che all’uscita delle guide non lanci un comunicato stampa per vantare un buon piazzamento. È straordinario pensare che buona parte del potere delle guide derivi proprio dalle loro vittime, anziché dall’autorevolezza prodotta dalla credibilità, a sua volta basata sull’attendibilità, sull’affidabilità e sull’esaustività.

Non sono rimaste scosse neppure dalle trasmissioni televisive seguite da milioni di telespettatori che le hanno messe alla berlina.

Poi arrivò la guida di Altroconsumo, giunta quest’anno, all’ottava edizione. Non prometteva di segnalare i migliori vini delle oltre 300.000 referenze che popolano il nostro mercato, ma di dare una valutazione ai vini che più facilmente si possono trovare al supermercato e in enoteca. I vini, più di 300, sono acquistati, sottoposti ad analisi chimica e ad analisi sensoriale. Sì, ad analisi sensoriale, non a degustazione. Vale a dire che ogni vino è valutato in modo rigorosamente anonimo da un panel attraverso descrittori oggettivi ed edonici e la misurazione eseguita è sottoposta a validazione attraverso la verifica dell’attendibilità e dell’efficacia dei giudici che l’hanno eseguita. Poi si generano le classifiche e in guida sono pubblicati tutti i vini, quelli buoni e quelli meno buoni, indicando il prezzo rilevato sul mercato. E per ogni vino è riportata anche una descrizione delle caratteristiche sensoriali. Così ogni consumatore è libero di girare tra gli scaffali e scegliere, in base ai propri gusti e alla propria capacità di spesa, aiutato da una valutazione onesta. Insomma: la perfezione non è di questo mondo, ma è bello pensare che c’è qualcuno che fa di tutto per raggiungerla.

Il camaleontismo dei concorsi enologici

Francesi, croati, bosniaci, serbi, sloveni, slovacchi, ungheresi, turchi, maltesi, israeliani, cileni, peruviani, sud africani, azerbaijani e tedeschi i vini, cechi, lituani, greci, estoni, inglesi, australiani, peruviani, neozelandesi, francesi, tedeschi, austriaci, statunitensi, maltesi e georgiani i giudici: con questa indiscussa patente  di internazionalità la prossima settimana sarà varato a Bergamo il concorso Emozioni dal Mondo: Merlot e Cabernet insieme. In sette edizioni (questa è l’ottava) è riuscito a diventare famoso nel mondo, concupito da assaggiatori e appassionati di vino dei cinque continenti che sfruttano ogni conoscenza e amicizia per essere inclusi nelle liste dei commissari. Morale: quest’anno ai 48 stranieri se ne aggiungeranno quasi altrettanti italiani, portando il rapporto tra giudici e giudicati a valori che non hanno eguali sul pianeta terra. Una piccola doc – la Valcalepio – che con pochissime risorse, per la maggior parte rese disponibili dai produttori, riesce a portarsi alla ribalta internazionale per dichiarare che l’Italia dei miracoli non è morta. Qual è il segreto di questo successo? Il concorso di Bergamo è diventato la festa degli scrittori di vino e degli enologi che non solo trovano un’occasione per incontrarsi in un ambiente in cui il dialogo è davvero facile (i momenti conviviali godono di una cura singolare) ma anche un impareggiabile momento di crescita professionale. Questo è stato l’obiettivo – perfettamente raggiunto – che si è posta fin dall’inizio la dirigenza del Consorzio Valcalepio, con il Conte Grumelli prima e poi con Enrico Rota, da sempre con l’enologo Sergio Cantoni che dell’evento è stato ideatore e ne rimane regista.

Non saranno ancora finiti gli echi della manifestazione bergamasca che a Roma inizierà Calix Aurea, la selezione dei vini del Lazio voluta dall’assessorato all’agricoltura. Gli obiettivi sono di natura completamente diversa: cercare il meglio di quanto l’enologia locale produce per proporlo agli oltre venti milioni di turisti che incontrano ogni anno l’antico impero, avere degli ambasciatori sicuri che rappresentano la regione nel mondo, offrire ai produttori un vantaggio competitivo. Ed ecco che lo scenario delle valutazioni muta: pochi giudici di provata e comprovata esperienza, un doppio turno nelle selezioni in modo che i vini insigniti di medaglia siano davvero il top della produzione laziale.

Due concorsi a confronto per dire che nonostante le severe norme che regolano queste competizioni è comunque possibile adeguarle agli obiettivi che una zona si propone per valorizzare le proprie produzioni di pregio. I concorsi sono decisamente in ascesa e tale tendenza non può che farci piacere. Anche questa considerazione può lasciarci sperare di poter avere domani una sola regolamentazione (oggi gli internazionali come Bergamo devono soggiacere al regolamento dell’Organizzazione internazionale della vite e del vino e del Ministero delle politiche agricole e forestali che non sempre sono in accordo) in armonia con i criteri dell’analisi sensoriale scientifica. Affidabilità, attendibilità ed esaustività sono doverose sia nei confronti dei consumatori, sia verso i produttori che si assoggettano al giudizio.

Caronte era più organizzato: dalla percezione all’emozione

Avete mai provato a prendere un volo dal terminal due di Malpensa? Già il terminal uno ben figura agli ultimi posti nel panorama mondiale quanto a organizzazione, confort e aspetti ludici per i passeggeri, ma al terminal due ti aspetti davvero di vedere sbucare Caronte da un momento all’altro.

A Malpensa uno arriva già stanco (salvo non sia un abitante di Marcallo o di uno dei paesi limitrofi), molte volte dopo una corsa in autostrada con l’ansia di perdere il volo per il traffico o la nebbia padana. Al terminal due l’arancio Easyjet ti investe come una fiammata e il lungo serpentone disegnato dai nastri che devi percorrere per arrivare al check in – anche se non c’è nessuno in fila – ti fa subito capire che le cose proprio “easy” non saranno. Se poi non ti sei ricordato di pagare per il bagaglio da stiva le cose si complicano, perché ti aspetta una fila a un altro sportello, poi il ritorno per ottenere l’agognata carta di imbarco. Scatta ovviamente l’emozione che porta all’autosvalutazione: è possibile che io sia così stupido e non mi sia accorto che dovevo comprare anche il biglietto per il bagaglio? Ovviamente pagando in aeroporto e facendo il conto a chilo il bagaglio non paga molto meno della persona, anche se viaggia in stiva non riscaldata. Ecco la seconda emozione: sono deficiente ed è giusto che paghi.

Ma il bello viene quando si deve passare il controllo di sicurezza: la fila si accalca nella hall e può raggiungere quasi la porta di entrata, poi si entra nel budello giallo dove in più di due affiancati non si passa. In effetti da questo punto in poi – sotto la violenza di colori sgargianti, transenne metalliche, soffitti bassi, luci fredde  – il meccanismo non è molto diverso da quello dei grandi macelli: si avanza a gabbie. La prima termina con l’uscita dai controlli dove se anche i guardiani fossero sorridenti nessuno sarebbe in grado di percepirlo tanto è oppressivo l’ambiente, la seconda si fa alle uscite dove le bestie turistiche vengono ammassate in attesa dell’imbarco, senza un posto a sedere, sempre con l’ansia del furbetto che ti sorpassi nascondendosi prima dietro una della colonne di cemento armato. La terza, dopo essere stati allietati da un gracchiante quanto incomprensibile discorso dell’addetta all’imbarco, è quella posta tra l’imbarco e l’aereo.

Dalla premessa ci si potrebbe tranquillamente ricavare una bella scheda di analisi sensoriale ambientale che, data in mano a un manipolo di giudici qualificati, potrebbe portare, dopo congrua elaborazione e validazione dei dati, a un report al quale potrebbero ispirarsi progettisti e committenti per rendere più confortevole l’accoglienza e la partenza dei passeggeri. L’analisi sensoriale ha dato risultati ottimi in questi casi, ma se proprio volessero approcciare il problema in modo ludico sarebbe sufficiente che si facessero qualche viaggio in giro per il mondo: Tokyo per esempio, ma se è troppo lontano possono anche andare sono fino ad Amsterdam o a Monaco di Baviera.

Forse però il problema è un altro: chi ha scelto il progettista di Malpensa aveva pensieri più importanti del valore del progettista, o il valore del progettista non era direzionato sul benessere dei passeggeri. Fatto sta che la storia metterà a confronto l’Italia del Duomo di Milano, della Torre di Pisa, di Piazza San Marco a Venezia con l’Italia dell’Aeroporto di Malpensa. E qualche ricercatore, tra qualche centinaio d’anni, forse scoprirà che uno strano virus aveva infestato la corteccia cerebrale degli italiani. Forse chiamerà il virus Mazzetta demens.

Un profumo da scoprire

di Veronica Volpi
Immaginatevi di avere un calice di vino in mano. Agitatelo con grazia, chiudete gli occhi e immergetevi totalmente in esso. Improvvisamente vi sentirete trasportati in un’altra dimensione. Gli aromi percepiti dal vostro naso si tradurranno inconsciamente in immagini, situazioni, luoghi a voi noti, vicini o lontani. Non necessariamente sarete in grado di riconoscerli o di distinguerli, ma ciò involontariamente accadrà nella vostra mente.

I più minuziosi e allenati inizieranno una lunga elencazione di aromi e sentori, che spazieranno dal mondo animale al vegetale, dalla singola varietà e cultivar del fiore, al sentore di “sudore di cavallo”. Gli altri semplicemente saranno invasi da questa esplosione di profumi, senza necessariamente riuscire ad attribuire un’etichetta semantica a ciascuno di essi.

Ma qual è il vettore che ci permette tutto questo? Quali sono i fattori che ci permettono di tradurre in immagini e parole quello che noi percepiamo in un calice di vino? Sono semplicemente centinaia di molecole, composti chimici sia naturalmente presenti nell’uva sia generati durante i processi di lavorazione e di fermentazione.

E così prima di tutto si avrà la sensazione di fruttato generata da circa 200 molecole tra esteri, aldeidi, chetoni, furani, fenoli e terpeni. In particolare la percezione di agrumato (prodotta da fenoli come geraniolo, citronellolo, rodinolo e terpeni come mircene e limonene), sarà amalgamata con quella di frutti rossi, (data da esteri come acetinasole), di frutti esotici (da esteri isoamilici ed etilici), e persino con quella di frutta secca, generata da acetofenone e acetil pirazine.

Non mancheranno nemmeno le note floreali: dai fiori specifici come la rosa (data da fenil acetato e cinnamil alcol) e la violetta (a,b iononi) , ai fiori vari e il miele (generato da fenetil e fenil esteri come il fenetil acetato).

Con una più attenta analisi, si riuscirà a individuare persino un ampio panorama di sentori vegetali. Il vegetale fresco di erbaceo, prodotto da un centinaio di molecole tra esteri e alcoli, si contrapporrà con quello di vegetale secco di fieno e tabacco (generato da acido fenilacetico), di balsamico (anisil alcol, isoestragole, propilanisole) e di sottobosco (la tipica sensazione di fungo di metionil acetato).

Gli assaggiatori più esperti non tralasceranno nemmeno gli aspetti più negativi del vino. Potrebbe quindi emergere la nota di rancido e ossidato (data dal cimene), di ammuffito (dall’ossido di linalolo) e di tostato (dal filbertone, sotolone e le pirazine). Potrebbero anche avvertirsi note casearie di latte, crema e formaggio, generate da lattoni  e furani e il tipico aroma di burro prodotto dal diacetile.

Non un semplice calice di vino quindi, ma una miscela di molecole aromatiche che attribuiscono a questo piacevoli sensazioni edonistiche.

Quando la guida si arricchisce di sensi

Giunta quasi per caso in un’affascinante area archeologica, culla di antiche civiltà del cuore del Mediterraneo, incuriosita osservo: tutto ha il sapore della storia e le bellissime rovine del mercato che fu sembrano emanare ancora il profumo dei prodotti della terra, cresciuti nell’armonia del luogo, lontano dalle alchimie industriali che vuole l’omologazione dei sapori.

I visitatori più pazienti attendono chi dovrà guidarli in un tour che decodifichi i neologismi sensoriali che nel percorso si mostrano fieri e incompresi. L’attesa appare lunga, perché poco armoniosa col luogo che emana profumi e messaggi che invitano alla scoperta del territorio. I visitatori più intraprendenti e curiosi invece si portano avanti scrutando ciò che s’immagina da lontano o studiando i caratteristici souvenir che vorrebbero sottolineare l’importanza delle bellezze che presto appariranno al loro cospetto.

La reception che accoglie gli ospiti è carina e piena di tutto ciò che ha l’ambizione di raccontare una storia che fu e vorrebbe ancora essere. Ci sono libri che parlano di tutto, attraverso la policromia fotografica moderna o la bicromia bianco/nero o seppia che s’ispira al passato. Perle di sapori sono riposte in confezioni miniaturizzate vestite a festa per accogliere gli avventori. A mandare in scompiglio quest’apparente armonia è sempre la solita domanda: che sapore ha questa cosa?

Ecco i gestori un po’ goffamente eludere la domanda, trasformandosi in moderni venditori di libri dalle argomentazioni più disparate che saltano dalle tecniche culinarie alle nozioni di storia. Certamente descrivervi tutto questo ormai lontana da quei luoghi, avvolta dall’odore sensorialmente omologato di grigi e polverosi uffici pubblici, diventa quanto meno una ginnastica evocativa di grande valore, utile a un novello scrittore di gusto, ma val la pena per raccontarvi come avrebbe fatto un Narratore del gusto.

Un Narratore del gusto davanti a tanta curiosità ed empatia, chiusi i libri di facile consultazione anche altrove, si sarebbe perso insieme ai suoi ospiti tra profumi di macchia mediterranea e tinte cromatiche calde e avvolgenti. Ecco che inizia a raccontare l’origine del contenuto delle delizie esposte, che solo per legge riportano una data di scadenza, ma la nascita del cui gusto si perde nella notte dei tempi, oltre ogni data, dove la natura non aveva velleità altre se non quelle di offrire alla vita e ai sensi il suo favore.

Un Narratore del Gusto forse avrebbe invitato gli astanti, anche la sottoscritta che non aveva intenzione di intrattenersi, a riconoscere l’essenza odorifera che da un laborioso insetto era finita dentro il vasetto colore dell’ambra, o si sarebbe inventato un gioco alla ricerca del profumo di erbe aromatiche che crescono in quel luogo e che hanno segnato i sapori che da una civiltà del passato fanno la fortuna dei ristoranti tipici di oggi, deliziando il palato di avventori per caso e per scelta. Certamente avrebbe fatto tutto questo.

Indubbiamente un’esperienza turistica avvolgente e globale per i sensi, dove nella narrazione non è tralasciata l’erudita spiegazione della guida, fatta di storia e geografia del territorio, ma inglobata nella magia e nella sensorialità del luogo e del tempo. L’esperienza turistica a cui in realtà ho assistito può apparire politicamente corretta, se non fosse che  a eventi di questo tipo ciascuno di noi può assistere in qualsiasi luogo e in qualsiasi stagione. Partecipiamo spesso a eventi che non tengono conto dell’ambiente in cui si trovano, fatti di parole che non raggiungeranno il percepito.

Questo è ciò che accade se alla base del progetto dell’accoglienza non c’è la capacità e l’ambizione di creare un forte legame tra la storia di un territorio, i suoi prodotti e le tradizioni, in un programma narrativo esperienziale che contraddistingua la visita di coloro che resteranno passivi spettatori, con quella di coloro che invece, attraverso un processo integrato, diventeranno attori.

Certamente la professionalità ineccepibile della guida turistica potrebbe trovare una evoluzione generando dei valori immateriali che definire souvenir sensoriali è solo un vezzo.

Nasce nuovo professionista dell’accoglienza capace di realizzare percorsi e processi d’integrazione con il territorio e tutto ciò che esso include attraverso un coinvolgente e innovativo sistema di comunicazione narrativa che unisce sensi, emozioni e intelletto. Ecco come l’analisi sensoriale eleva le conoscenze delle guide turistiche assurgendole al rango di guide sensoriali, a un passo dal diventare veri Narratori del Gusto.

La sensibilità dell’imprenditore

Immaginatevi di buon mattino a Tokyo: alle spalle una serata finita un po’ tardi in compagnia di tre go di saké (un go equivale a 180 millilitri), davanti un ragazzo di un bar di Starbucks gentilissimo e impietoso. Siete entrati solo per prendere una pasta e un espresso, perché è il bar più vicino all’hotel. Non apprezzate molto i neri chicchi che sono nella campana di una macchina automatica, perché li immaginate a 50°C di temperatura almeno. Ma tanto sono già neri di loro, e a notare dall’aspetto di caffeina ne hanno ed è quello che in quel momento vi occorre. Volete un espresso.

Il ragazzo impietoso vede che non avete gli occhi a mandorla e si rivolge a voi in inglese, gentilissimo davvero, con tanti sorrisi che fate fatica a trovarli in dieci bar italiani. Ma è impietoso: non gli basta sapere che volete un espresso, vi chiede se singolo o doppio, con questo o con quello. Cercate nella vostra mente una frase che vi permetta di dirgli che volete un espresso, solo un semplice espresso, come lo fanno lì, senza farvi idee strane sul suo profilo sensoriale. Per la pasta è più facile: gliela indicate nella vetrina. Finalmente batte lo scontrino, pensate che ora vi farà l’espresso, ma vi sbagliate: sullo scontrino c’è una scritta lunga lunga che termina con cinque quadrati. E lui vi spiega con dovizia di particolari che andando in internet sul sito indicato e rispondendo alle domande che vengono poste riceverete un numero che, inserito sullo scontrino e riportato al punto vendita, vi dà diritto a una consumazione gratis. Pensate che sarebbe stato semplice velocizzare il tutto dicendogli di sì anche senza avere capito? Pia illusione: il ragazzo è fedele agli obiettivi posti dall’impresa, vi legge negli occhi che non avete capito e rispiega la cosa fino a quando non è certo della vostra comprensione.

Sappiamo benissimo che dare un’istruzione a un nipponico equivale ad azionare un meccanismo senza ritorno, ma per quanto l’esperienza in quel frangente sia stata fustigante merita una riflessione: dunque Starbucks si preoccupa di cosa pensano i suoi clienti, li vuole conoscere meglio per poterli soddisfare, anche quelli come noi che non riuscirà mai a convincere fino a quando vedremo chicchi neri tenuti nel forno a maturare.

Forse a torto, ma siamo convinti che la maggioranza degli imprenditori e dei baristi italiani abbiano in animo di conoscere perfettamente cosa pensano i loro clienti. Se le cose vanno male è colpa della crisi, o del sindaco che dà troppe licenze e quindi ci sono troppi bar, o della concorrenza che fa prezzi stracciati. Il cliente non si interroga mai, anche se ci sono sistemi veloci ed economici. Però nel solo Giappone Starbucks ha 1.000 bar. Il prossimo potrebbe essere nella vostra piazza. Perché avrà scoperto che i vostri clienti non sono soddisfatti.

E nei settori diversi da quelli del caffè, quanti Starbucks ci sono? Forse l’epoca delle sfere di cristallo sta terminando, ma sono in molti a crederci ancora e quindi a rifiutare le moderne indagini sul consumatore.