Sensory News

Ricerche di mercato, tendenze sensoriali, nuovi metodi e analisi di prodotti
 

Quando la guida si arricchisce di sensi

Giunta quasi per caso in un’affascinante area archeologica, culla di antiche civiltà del cuore del Mediterraneo, incuriosita osservo: tutto ha il sapore della storia e le bellissime rovine del mercato che fu sembrano emanare ancora il profumo dei prodotti della terra, cresciuti nell’armonia del luogo, lontano dalle alchimie industriali che vuole l’omologazione dei sapori.

I visitatori più pazienti attendono chi dovrà guidarli in un tour che decodifichi i neologismi sensoriali che nel percorso si mostrano fieri e incompresi. L’attesa appare lunga, perché poco armoniosa col luogo che emana profumi e messaggi che invitano alla scoperta del territorio. I visitatori più intraprendenti e curiosi invece si portano avanti scrutando ciò che s’immagina da lontano o studiando i caratteristici souvenir che vorrebbero sottolineare l’importanza delle bellezze che presto appariranno al loro cospetto.

La reception che accoglie gli ospiti è carina e piena di tutto ciò che ha l’ambizione di raccontare una storia che fu e vorrebbe ancora essere. Ci sono libri che parlano di tutto, attraverso la policromia fotografica moderna o la bicromia bianco/nero o seppia che s’ispira al passato. Perle di sapori sono riposte in confezioni miniaturizzate vestite a festa per accogliere gli avventori. A mandare in scompiglio quest’apparente armonia è sempre la solita domanda: che sapore ha questa cosa?

Ecco i gestori un po’ goffamente eludere la domanda, trasformandosi in moderni venditori di libri dalle argomentazioni più disparate che saltano dalle tecniche culinarie alle nozioni di storia. Certamente descrivervi tutto questo ormai lontana da quei luoghi, avvolta dall’odore sensorialmente omologato di grigi e polverosi uffici pubblici, diventa quanto meno una ginnastica evocativa di grande valore, utile a un novello scrittore di gusto, ma val la pena per raccontarvi come avrebbe fatto un Narratore del gusto.

Un Narratore del gusto davanti a tanta curiosità ed empatia, chiusi i libri di facile consultazione anche altrove, si sarebbe perso insieme ai suoi ospiti tra profumi di macchia mediterranea e tinte cromatiche calde e avvolgenti. Ecco che inizia a raccontare l’origine del contenuto delle delizie esposte, che solo per legge riportano una data di scadenza, ma la nascita del cui gusto si perde nella notte dei tempi, oltre ogni data, dove la natura non aveva velleità altre se non quelle di offrire alla vita e ai sensi il suo favore.

Un Narratore del Gusto forse avrebbe invitato gli astanti, anche la sottoscritta che non aveva intenzione di intrattenersi, a riconoscere l’essenza odorifera che da un laborioso insetto era finita dentro il vasetto colore dell’ambra, o si sarebbe inventato un gioco alla ricerca del profumo di erbe aromatiche che crescono in quel luogo e che hanno segnato i sapori che da una civiltà del passato fanno la fortuna dei ristoranti tipici di oggi, deliziando il palato di avventori per caso e per scelta. Certamente avrebbe fatto tutto questo.

Indubbiamente un’esperienza turistica avvolgente e globale per i sensi, dove nella narrazione non è tralasciata l’erudita spiegazione della guida, fatta di storia e geografia del territorio, ma inglobata nella magia e nella sensorialità del luogo e del tempo. L’esperienza turistica a cui in realtà ho assistito può apparire politicamente corretta, se non fosse che  a eventi di questo tipo ciascuno di noi può assistere in qualsiasi luogo e in qualsiasi stagione. Partecipiamo spesso a eventi che non tengono conto dell’ambiente in cui si trovano, fatti di parole che non raggiungeranno il percepito.

Questo è ciò che accade se alla base del progetto dell’accoglienza non c’è la capacità e l’ambizione di creare un forte legame tra la storia di un territorio, i suoi prodotti e le tradizioni, in un programma narrativo esperienziale che contraddistingua la visita di coloro che resteranno passivi spettatori, con quella di coloro che invece, attraverso un processo integrato, diventeranno attori.

Certamente la professionalità ineccepibile della guida turistica potrebbe trovare una evoluzione generando dei valori immateriali che definire souvenir sensoriali è solo un vezzo.

Nasce nuovo professionista dell’accoglienza capace di realizzare percorsi e processi d’integrazione con il territorio e tutto ciò che esso include attraverso un coinvolgente e innovativo sistema di comunicazione narrativa che unisce sensi, emozioni e intelletto. Ecco come l’analisi sensoriale eleva le conoscenze delle guide turistiche assurgendole al rango di guide sensoriali, a un passo dal diventare veri Narratori del Gusto.

La sensibilità dell’imprenditore

Immaginatevi di buon mattino a Tokyo: alle spalle una serata finita un po’ tardi in compagnia di tre go di saké (un go equivale a 180 millilitri), davanti un ragazzo di un bar di Starbucks gentilissimo e impietoso. Siete entrati solo per prendere una pasta e un espresso, perché è il bar più vicino all’hotel. Non apprezzate molto i neri chicchi che sono nella campana di una macchina automatica, perché li immaginate a 50°C di temperatura almeno. Ma tanto sono già neri di loro, e a notare dall’aspetto di caffeina ne hanno ed è quello che in quel momento vi occorre. Volete un espresso.

Il ragazzo impietoso vede che non avete gli occhi a mandorla e si rivolge a voi in inglese, gentilissimo davvero, con tanti sorrisi che fate fatica a trovarli in dieci bar italiani. Ma è impietoso: non gli basta sapere che volete un espresso, vi chiede se singolo o doppio, con questo o con quello. Cercate nella vostra mente una frase che vi permetta di dirgli che volete un espresso, solo un semplice espresso, come lo fanno lì, senza farvi idee strane sul suo profilo sensoriale. Per la pasta è più facile: gliela indicate nella vetrina. Finalmente batte lo scontrino, pensate che ora vi farà l’espresso, ma vi sbagliate: sullo scontrino c’è una scritta lunga lunga che termina con cinque quadrati. E lui vi spiega con dovizia di particolari che andando in internet sul sito indicato e rispondendo alle domande che vengono poste riceverete un numero che, inserito sullo scontrino e riportato al punto vendita, vi dà diritto a una consumazione gratis. Pensate che sarebbe stato semplice velocizzare il tutto dicendogli di sì anche senza avere capito? Pia illusione: il ragazzo è fedele agli obiettivi posti dall’impresa, vi legge negli occhi che non avete capito e rispiega la cosa fino a quando non è certo della vostra comprensione.

Sappiamo benissimo che dare un’istruzione a un nipponico equivale ad azionare un meccanismo senza ritorno, ma per quanto l’esperienza in quel frangente sia stata fustigante merita una riflessione: dunque Starbucks si preoccupa di cosa pensano i suoi clienti, li vuole conoscere meglio per poterli soddisfare, anche quelli come noi che non riuscirà mai a convincere fino a quando vedremo chicchi neri tenuti nel forno a maturare.

Forse a torto, ma siamo convinti che la maggioranza degli imprenditori e dei baristi italiani abbiano in animo di conoscere perfettamente cosa pensano i loro clienti. Se le cose vanno male è colpa della crisi, o del sindaco che dà troppe licenze e quindi ci sono troppi bar, o della concorrenza che fa prezzi stracciati. Il cliente non si interroga mai, anche se ci sono sistemi veloci ed economici. Però nel solo Giappone Starbucks ha 1.000 bar. Il prossimo potrebbe essere nella vostra piazza. Perché avrà scoperto che i vostri clienti non sono soddisfatti.

E nei settori diversi da quelli del caffè, quanti Starbucks ci sono? Forse l’epoca delle sfere di cristallo sta terminando, ma sono in molti a crederci ancora e quindi a rifiutare le moderne indagini sul consumatore.

È solo l’inizio di un viaggio

Al Centro Studi Assaggiatori sono state due settimane intense di lavoro e di studio. L’avventura dell’analisi sensoriale è iniziata con il corso di Panel Leader per concludersi con il quello di Brand Ambassador. I partecipanti sono arrivati da varie parti d’Italia ognuno con un suo percorso e una sua aspettativa.

Due settimane dove intorno a un tavolo si sono ritrovati vertici aziendali, responsabili di ricerca e sviluppo, enologi, ma anche esperti di ricerche di mercato o liberi professionisti e giovani che si preparano a iniziare la carriera imprenditoriale. Tutti con l’intento comune di ampliare la propria mappa della realtà, consapevoli che la qualità della vita non può prescindere dal mondo dei sensi. Il Centro Studi Assaggiatori non è nuovo a questi eventi formativi, ma ogni volta è una nuova scoperta e avventura.

Per definizione l’analisi sensoriale è l’insieme delle tecniche e dei metodi che consentono di descrivere e misurare gli stimoli esterni che giungono al cervello, qualunque sia la loro origine, mediante un determinato sistema sensoriale. Questo è esattamente quello che è avvenuto, ma forse fuori da ogni immaginazione dei partecipanti, gli stimoli sensoriali si sono alternati tra prodotti e ambiente.

L’analisi sensoriale per giocare, per la promozione, per l’assicurazione qualità, per l’innovazione di prodotto. Un nuovo approccio per vendere e per costruire reti. Comunicare la qualità in termini sensorialmente percepibili è possibile, è innovativo ed è riassunto nel triangolo aureo della qualità (qualità erogata, qualità attesa e percepita) e nell’approccio innovativo che parte dalla qualità percepita. Tutto questo con un semplice assaggio. Chi l’avrebbe mai detto che la potenza dei sensi potesse spingersi così in avanti, portando a disquisire di analisi statistica e posizionamenti sul mercato, ma anche di recettori e reti neuronali che trasportano informazioni sulla realtà che ci circonda? E che dire dell’alchimia delle molecole che rendono prezioso un vino piuttosto che un caffè?

Le sorprese per i candidati Panel Leader e Brand Ambassador non sono state poche. Tutto ha avuto inizio con la scoperta dei famosi organi di senso al sevizio della qualità e dell’innovazione per proseguire con il viaggio sensoriale che li ha condotti in giro per il mondo alla scoperta delle note aromatiche dei caffè monorigine e lo stupore nel ritrovarsi a descrivere e giocare con un insolito tour tra i distillati del mondo.

Del tutto inaspettata è arrivata anche l’analisi sensoriale dell’ambiente resa manifesta non dalla compilazione di una scheda, ma dalla voglia di ritrovarsi ancora insieme per momenti di studio e di gioco didattico.

Due nuovi gruppi inizieranno così un nuovo percorso di vita professionale e personale: i Panel Leader alle prese con la qualità e con il sistema di analisi sensoriale nelle aziende e i Brand Ambassador nel nuovo ruolo di comunicazione e vendita del prodotto, ma tutti con una diversa e più ampia mappa della realtà nella missione comune di migliorare la qualità della vita e dei beni che ne fanno parte.

Aspiranti Panel Leader

Aspiranti Brand Ambassador

Addio tipicità?

27 esperti di vino (sommelier, enologi e assaggiatori): un Oltrepò Pavese Doc Barbera è stato identificato correttamente solo dal 14% dei degustatori. Sotto l’aspetto del vitigno è stato rilevato come Lambrusco  (25%) e Bonarda (15%), ma anche come Sangiovese, Brachetto, Cabernet, Marzemino e altri ancora. La regione di attribuzione va di conseguenza: il 40% dei giudici l’ha collocato in Emilia e solo il 25% in Lombardia.

Peggio è andata a una Barbera d’Alba Doc: nessuno ha attribuito il vino a tale denominazione, né al vitigno, né alla regione. Interessante notare che non è mancato chi l’ha presa per un Brunello, mentre a livello di vitigno si sono pareggiati i giudici che l’hanno fatto derivare dal Sangiovese con quelli che hanno sostenuto l’Aglianico come genitore. Gli altri si sono dispersi tra Primitivo, Negramaro, Merlot e Cabernet.

La stessa sorte – ma questo è già più comprensibile – è toccata a un Solopaca Sannio Doc rosso: zero identificazioni. In compenso a qualcuno è parso trattarsi di Sangiovese, mentre altri hanno propeso per Cabernet, Merlot, Dolcetto e vari ancora. Come area di produzione è stato quindi collocato principalmente in Toscana, a seguire in Piemonte.

Un Valtellina superiore Docg Sassella è stato identificato correttamente solo dal 4% dei degustatori, ma il 30% ha azzeccato il vitigno. È stato il risultato migliore.

Potremmo continuare con quanto ottenuto da ricerche che stiamo eseguendo da anni e che mettono in evidenza che ai bianchi non va meglio, ma ci pare inutile portare dei dati che sistematicamente confermano un discorso: per denominazione i vini non sono omogenei e lo stanno diventando sempre meno. Possiamo comprenderne il motivo: io produttore devo rendere il mio prodotto diverso da quello dei competitor della medesima zona per acquisire vantaggi competitivi sul mercato. Quello che non può fare il territorio lo fa l’agronomo in vigneto e l’enologo in cantina.

A questo punto però sorgono molti interrogativi: che senso ha parlare di tipicità nelle scuole di degustazione e nei disciplinari di produzione? Stiamo compiendo un tradimento nei confronti del consumatore che quando compra una bottiglia di una determinata denominazione vuole trovare una rispondenza con le attese sensoriali che si pone? Tutta l’impalcatura sulle indicazioni geografiche è da rivedere per dare a esse un valore capace di andare oltre la carta? È ancora valida l’enografia come viene espressa oggi?

Pane al pane, vino al vino

Estate, tempo di vacanze. Non è raro trovare nel semplice e omologato supermercato strani personaggi che in bermuda, rossi come pomodori maturi, chiedano al commesso del banco salumi che sapore abbia quell’insaccato piuttosto che quel bellissimo formaggio pasta gialla. Quasi sempre la risposta è la seguente: “È buono, è una produzione locale, non lo trova da nessun’altra parte”. Davanti a un naso per aria che tenta di capire dove collocare “il buono” nella sua mappa dei sapori, al commesso non rimane altro, se dotato di gentilezza estrema, che farglielo assaggiare e sperare che ciò che offre incontri il gusto del suo probabile acquirente. Peggio andrebbe se si volesse anche capire perché quel particolare prodotto porta quel nome. Spesso il nome racchiude il sapore, basterebbe infatti anche solo saper spiegare l’origine semantica per andare oltre un generico “è buono”.

I commessi più diligenti danno invece una descrizione sensoriale dettagliata, spiegando quanto un prodotto in bocca sia più o meno gommoso piuttosto che croccante, dal gusto delizioso o anche accattivante oppure, nella peggiore delle ipotesi, per essere politicamente corretti, il gusto si trasforma in “particolare” dal retrogusto persistente. A questo punto il nostro turista per caso potrebbe trovarsi nel piatto un orecchio di elefante stufato o al pari una croccante sfoglia di pane carasau.

Se poi parliamo di vini, basterebbe leggere o guardare programmi dedicati, condotti da noti personaggi. I vini rossi sono delle bevande caratterizzate di default da un naso più o meno ricco, spalla larga e una bocca importante equilibrata e snella, ma che talvolta può essere croccante e fresca. Certamente il fruttato domina con i frutti rossi e la marasca ci sta sempre bene. La brezza di montagna aiuta così come qualche fiore di campo.

I vini bianchi hanno un naso elegante e una vivace freschezza. Il palato è semplice o magari la bocca è importante e minerale. Il fruttato riporta i frutti a pasta bianca, un po’ di grafite e magari salvia e rosmarino, bellissima acidità e infine buona persistenza.

Per narrare il gusto però bisogna saper guardare, annusare e assaggiare, atteggiamento forse usuale ma dall’esito singolare. La capacità di raccontare sapori e cultura è il frutto di un vissuto che non si sottrae da ciò che ordinariamente è detta formazione, ma se parliamo di gusto e se la formazione risponde alla grammatica sensoriale di ordinario c’è poco e di straordinario tanto. Il percorso didattico dei narratori del gusto risponde alla necessità di ciascuno, sia che lo si faccia per diletto o per professione, di trasferire contenuti sensoriali in modo trasversale, attraversando i limiti linguistici e incontrando e dialogando con le esperienze sensoriali oltre i limiti del buono o del cattivo imbattendosi nelle radici del gusto.

Tornare giudice

Per essere un buon panel leader bisogna saper leggere il pensiero e le emozioni dei giudici. Tornare per un giorno giudice di un grande panel è una buona cura per i vizi dei panel leader e un modo per aprirsi a nuove visioni e capire ancor meglio quanto l’analisi sensoriale sia un esercizio di condivisione.

Quando si è abituati a vivere i test, i concorsi, le certificazioni da dietro le quinte, tornare a effettuare una valutazione nelle vesti di giudice è quasi un piccolo trauma. Questo è quello che è capitato trascorrendo una giornata di test sul caffè nel ruolo di assaggiatore.

Un giudice che è anche panel leader sa esattamente cosa sta accadendo in sala, cosa succede nel locale di preparazione dei campioni, cosa passa per la testa del panel leader che guida il test e intercetta stimoli e momenti di delicata gestione del gruppo.

La possibilità di vivere un giorno da giudice fa anche ricordare e capire con occhi diversi perché la grande macchina organizzativa dell’analisi sensoriale è strutturata in modo fisso e al tempo stesso adattabile. Sì, perché tutto deve funzionare in modo perfetto per dettare i tempi al panel, ma deve essere abbastanza flessibile per poterne seguire le necessità.

Il panel leader torna a scoprire cosa significa avere pause troppo lunghe tra un campione e l’altro, capisce in che modo certi giudici possono distogliere l’attenzione e disorientino durante i preliminari del test. Tutte cose, queste, che un bravo conduttore già conosce, ma sperimentare sulla propria pelle la noia suscitata da un giudice troppo puntiglioso che durante una taratura viene educatamente riportato nel gruppo dal panel leader, è sempre un’esperienza su cui riflettere.

E allora è possibile capire quanto la taratura sia per un giudice il momento più delicato di tutto il test. Ogni panel leader è abituato a confrontarsi con giudici che contestano la mediana, che vogliono per forza dire la propria opinione o addirittura imporre le loro idee di giudice monocratico. Solamente vivendo la taratura nelle vesti di giudice il panel leader può però ricordare quanto sia impellente la voglia di affermare in modo assolutistico “No! Questo caffè aveva almeno 6 di acidità!” o, “ma come hanno fatto a non sentire il floreale in questo campione?”

La ragione rammenta poi che forse proprio quel giorno e in quel momento potresti essere tu a percepire gusti e aromi in modo diverso e singolare, che forse è la tua personale esperienza o il tuo umore a fare discostare i tuoi giudizi dalla mediana del gruppo. Con una grande dose di umiltà quindi si rinsavisce e si accetta la mappa della realtà fornita dal gruppo. E questo è il punto: un giudice deve essere umile e il panel leader deve ricordare sempre quale sforzo di umiltà sta chiedendo a ogni singolo individuo coinvolto nel test.

Come non capire quindi l’esperto del settore, il produttore, il giornalista che, non avvezzi a questa disciplina, faticano a comprendere l’importanza del giudizio del gruppo? E questo è il punto cardine dell’analisi sensoriale e l’obiettivo di tutti i panel leader, sensorialisti o comunicatori che fondano il proprio lavoro su questa metodologia: rendere le persone anche più esperte consapevoli dell’importanza dell’altro.

L’analisi sensoriale è una disciplina di condivisione o, come mi hanno suggerito ultimamente proprio dei bravissimi giudici, una scienza democratica.

Per chi panel leader ancora non è e magari vorrebbe diventarlo, dal 27 al 31 agosto si terrà a Brescia un corso organizzato dal Centro Studi Assaggiatori.

Cose mai viste: i tecnici che fanno un corso di narrazione ai giornalisti

La sfida ci stava tutta: un corso per narratori a chi il narratore lo fa di professione. A prepararci le forche caudine è stato l’Ente del Turismo di Alba, Bra, Langhe e Roero che ha riunito nel Castello di Barolo, giusto sotto il singolare museo del vino dove si colloca una sala ampia e luminosa destinata a eventi come questo, quindici operatori della comunicazione ai quali ha offerto il corso di brand ambassador, il primo gradino per diventare Narratori del gusto.

In effetti all’inizio del corso non sono mancati sguardi che palesavano la posizione di chi ti aspetta al varco, ma in poco tempo scemavano le tendenze critiche e isolazioniste e il gruppo viaggiava all’unisono verso le pur difficili tecniche di analisi sensoriale che doveva apprendere. L’innovazione più importante dei Narratori del gusto sta proprio qui: non c’è qualcuno che ti dice cosa devi sentire, ma solo una guida che ti accompagna alla scoperta di come funziona il meccanismo della percezione, come si legge il codice sensoriale di un prodotto e del suo territorio, come si può esprimere una sensazione e in quale misura può essere condivisa.

Se i partecipanti sono stati soddisfatti – e non solo per le esercitazioni incentrate su crema di nocciole, Dolcetto, Barbera e Barolo – noi lo siamo stati di più, se non altro perché ci siamo portati a casa più di un argomento sul quale riflettere. In primo luogo abbiamo compreso che, per fare diventare grande il nostro movimento, abbiamo bisogno dei narratori di professione e non solo per il ruolo di formatori di opinione che rivestono. Gli operatori della comunicazione hanno il dono di saper scrivere in modo che per gli altri sia facile capire e quindi possono dare un contributo enorme per qualificare l’associazione sotto il profilo stilistico. Al rigore della scienza sulla quale si basano i criteri formativi di Ndg loro possono aggiungere piacevolezza ed efficacia di divulgazione.

Quindi speriamo che a questa prima falange altri si possano aggiungere, ma soprattutto che quanti sono stati a Barolo possano restare vicini ai Narratori del gusto e contribuire al suo successo, con il conseguente riflesso sul nostro patrimonio tipico tradizionale. Più che mai ne abbiamo necessità.

Davvero non vuoi diventare panel leader?

Panel leader è bello: guidare un gruppo di valutazione in analisi sensoriale è sicuramente emozionante. Ma non manca chi pensa che non gli serve, perché tanto lui un gruppo di giudici non ce l’ha. E’ una visione riduttiva di questa figura cardine dell’analisi sensoriale.

Diventare panel leader significa imparare a fare i piani sperimentali, a ricavare qualsiasi scheda possa occorrere anche per prodotti non ancora testati, a motivare e guidare i giudici, a elaborare i dati e interpretare i risultati. Il percorso che porta all’abilitazione di panel leader è l’unico che dà una visione esaustiva dell’analisi sensoriale impiegabile nella certificazione qualità, nella ricerca e nello sviluppo, in produzione e nel marketing. Ma c’è di più: il percorso offre nuove modalità di relazione con le persone e con le cose, perché in analisi sensoriale lo strumento utilizzato è per la stragrande maggioranza dei casi costituito da umani.

In questo periodo possiamo vedere i benefici della qualificazione anche in ottica occupazionale, soprattutto nelle industrie alimentari, sempre più chiamate dalle certificazioni Brc e Ifs ad avere personale in grado di svolgere test sensoriali. La qualifica di panel leader può essere di grande beneficio per il proprio curriculum, perché consente di soddisfare nuovi bisogni aziendali. Lo può essere per il dipendente, ma lo stesso vale per il libero professionista che acquisisce la capacità di formare gruppi di valutazione sensoriale (panel) o, per lo meno, di interloquire con competenza con le società esterne che svolgono questi servizi. Non pensiamo solo ai tecnologi, ma anche agli uomini di marketing che si trovano quotidianamente a considerare i risultati di costosi test sui consumatori.

E se pensate che la formazione sia lunga e onerosa siete fuori strada: le moderne tecniche didattiche consentono di fornire le competenze necessarie in 40 ore.

Siete ancora dell’idea di non diventare panel leader?

Scoperto un fenomeno: identifica correttamente 997 vini Doc

Due giorni di lavoro, un sommelier che gli serviva il vino rigorosamente anonimo, un altro che gli portava via il bicchiere usato. Nessun altro nella stanza tranquilla che il nostro protagonista ha voluto protetta dalla luce del sole, lavorando nella penombra che meglio aiuta la concentrazione. La sfida che gli è stata proposta: identificare 1.000 vini attribuendo a tutti la denominazione di origine. La sfida che si è posto da solo: superare un noto recensore nel numero di assaggi giornalieri, con la differenza che il guidaiolo si poneva l’obiettivo di dare un punteggio conoscendo il nome del vino e il produttore, mentre lui doveva scrivere su un foglio di carta la denominazione e, se presente, anche la specificazione (per esempio “riserva”). La seconda sfida l’ha vinta: in due giorni ha assaggiato 1000 vini. Ma secondo noi ha vinto anche la prima: ha identificato correttamente 997 vini senza neppure lasciarsi ingannare dalle cinque repliche che erano state inserite all’interno delle interminabili serie. Ha sbagliato, e di questo si rammarica molto, l’Albugnano, il Bagnoli di Sopra e il Faro. Ma di quest’ultimo non si è certi dell’errore, perché era il 477° del secondo giorno e ai certificatori della prova è parso che fosse scritto Fara.

Questo è quello che vorremmo riuscire a scrivere un giorno su un post, ma la realtà di oggi è ben diversa. A 24 giudici (sommelier di lungo corso, assaggiatori ed enologi) è stato chiesto di dire che vino era un Sangiovese di Romagna. Ben quattro lo hanno identificato come Merlot, tre come Cabernet e tre come Pinot nero, ma non è mancato chi ci ha visto un Lagrein, un Refosco e persino un Groppello. Tralasciamo gli altri per brevità, diciamo che solo tre hanno affermato che era un Sangiovese. Del vino è stata dichiarata la denominazione, ed è stato riproposto il giorno dopo. La situazione è peggiorata: solo due le risposte corrette. E’ stato quindi riproposto una terza volta e per fortuna tre degustatori hanno detto che era Sangiovese.

E’ solo una delle tante sperimentazioni sensoriali che stiamo conducendo per smontare leggende metropolitane che vogliono creare miti e folle di appassionati del vino che li rincorrono ammirati. Stanno emergendo dei dati molto interessanti sul perché è così difficile memorizzare un vino come si fa con il volto di una persona, ma noi non smetteremo di cercare il fenomeno capace di identificare 997 vini su 1.000. Quindi chi si sente pronto alla sfida si faccia avanti, lo testeremo volentieri, ma mi sa che la soddisfazione la troveremo solamente in quanto avanza nelle bottiglie che apriremo per lui.

Vuoi fare diventare la tua Dop famosa? L’esempio viene dall’Est

Utilizzare l’analisi sensoriale come strumento di valorizzazione ma soprattutto di comunicazione delle denominazioni: è stato questo il messaggio finale lanciato alla consegna dei diplomi per panel leader del prosciutto Istriano. Durante la cerimonia sono stati inoltre marchiati dall’assessore regionale all’agricoltura e dal Ministro dell’agricoltura i primi prosciutti a denominazione di origine controllata della Croazia che saranno inviati alla CE per il riconoscimento DOP/IGP ai sensi del Reg CE 510/06.

Per questi prodotti, che a breve entreranno nel panorama europeo, diventa importante non tanto definire il sistema di valutazione, quanto piuttosto valorizzare le caratteristiche sensoriali comunicandole in modo efficace e trasmettendole ai consumatori che ancora non li conoscono.

Comunemente l’analisi sensoriale è vista come un metodo utilizzato per la valutazione del prodotto e lo stesso discorso vale anche per l’analisi delle denominazioni che devono rispettare le caratteristiche previste dal disciplinare di produzione. È però molto di più di questo.

Partiamo dalla definizione per capirne meglio il significato: l’analisi sensoriale è l’insieme di tecniche e metodi che da una parte consentono di descrivere e misurare la sensazione e la percezione della realtà e dall’altra di migliorare la percezione, agendo direttamente sulla qualità della vita. Quindi, da questa definizione abbiamo già impliciti due campi di applicazione dell’analisi sensoriale: il primo legato all’individuazione degli attributi caratterizzanti del prodotto e il secondo riguardante la comunicazione delle caratteristiche del prodotto ai consumatori.

Punti cruciali nella gestione di una denominazione di origine sono l’individuazione delle fasi del processo che influenzano le caratteristiche del prodotto finito e comunicare e far comprendere al consumatore finale come riconoscere pregi e difetti del  prodotto. Lo strumento ideale per definire le qualità percepite e aiutare il consumatore nella loro percezione è sicuramente l’analisi sensoriale.

Attraverso l’utilizzo delle tecniche descrittive possiamo infatti costruire le mappe del prodotto e con i profili oggettivi quantitativi, qualitativi soggettivi e analogico affettivi possiamo anche trovare le relazioni tra le caratteristiche del prodotto e le fasi differenzianti del processo produttivo.

Da questo presupposto possono quindi essere studiati dei seminari per comunicare le caratteristiche del prodotto in modo da formare il consumatore sul riconoscimento dei pregi e dei difetti. Possono anche essere condotti test sulla piacevolezza al fine di valutare se il consumatore è in grado di riconoscere i meriti del prodotto e collegare tali caratteristiche al profilo edonico. L’analisi di questi dati ci permette dunque di capire quali sono i punti di azione e di miglioramento nella comunicazione del prodotto stesso, in modo da promuoverlo in maniera più diretta, cioè grazie alla percezione del consumatore, sicuramente un ottimo modo per presentare prodotti non molto conosciuti…

Potrebbe essere uno spunto anche per la comunicazione dei nostri prodotti tradizionali seppur famosi, cercando di non comunicare solamente la fama della denominazione ma anche le caratteristiche sensoriali percepite, creando forti collegamenti con il territorio di provenienza.