Davvero un tallone d’Achille nei corsi di analisi sensoriale: tutti quelli che sentono “zucchero” possono dire “dolce”, mentre quasi nessuno, assaggiando il glutammato, afferma “umami”.
Ogni volta che lo si nomina, bisogna spiegarne la storia e le caratteristiche, con gli astanti che, con sguardo perplesso, si guardano intorno come se si stesse parlando di una contorta teoria astrofisica anziché di una cosa semplice e palpabile come un sapore.
Eppure l’umami non è tutta questa novità: presentato alla comunità scientifica da Ikeda nel 1912, ci ha dato più di un secolo di tempo per essere integrato nella nostra cultura, e smetterla di essere catalogato come “quello strano sapore giapponese”. In un test con persone di diversa nazionalità, più del 50% dei giapponesi l’ha correttamente riconosciuto, mentre solo il 10% degli statunitensi ha saputo dire cosa fosse. Molti altri, invece, l’hanno confuso col salato.
Come mai? Eppure i cibi dell’ovest del mondo sono ricchissimi di glutammato, e quindi di umami. Pensiamo ai salumi stagionati, ai funghi, al parmigiano, al pomodoro, al brodo di carne della nonna.
Forse proprio il brodo è la risposta.
In una ricerca, è stato analizzato il brodo-base della cucina giapponese, il dashi, realizzato con l’alga konbu e del bonito essiccato, entrambi con alte concentrazioni di glutammato. In confronto, un classico brodo di pollo (che richiede una lunga cottura, e altri ingredienti vegetali).
Il risultato, guardando la composizione in amminoacidi liberi, è davvero curioso: la zuppa giapponese è composta quasi esclusivamente di glutammato e aspartato, mentre quella occidentale presenta una grande varietà di amminoacidi, in un pattern molto più vario e complicato.
I giapponesi hanno vita facile, nel riconoscere l’umami: hanno avuto tutta la vita a disposizione per assaggiarlo e riassaggiarlo in purezza e, senza disturbi, hanno imparato a riconoscerlo.
Riusciremo anche noi a farlo entrare nella nostra cultura, riconoscendolo al pari del dolce, e distinguendolo dal salato?