Sensory News

Ricerche di mercato, tendenze sensoriali, nuovi metodi e analisi di prodotti
 
Ogni anno in Brasile sono prodotti 1,3 miliardi di litri di cachaça, il distillato nazionale. Anche nel paese sudamericano cresce la necessità di tutelare la tipicità del prodotto.

Si è svolto sabato 2 dicembre nello stato di San Paolo (Brasile) il II Concorso della Cachaça brasiliana. Nella competizione, organizzata dall’Università di San Paolo, sono risultati vincitori 21 prodotti (3 medaglie d’oro, 11 d’argento e 7 di bronzo). I premi sono stati assegnati correlando analisi chimica e analisi sensoriale.

La supervisione del concorso è stata affidata al prof. Douglas Wagner Franco dell’Università di San Paolo. La certificazione della competizione è stata assegnata al Centro Studi Assaggiatori. Per Luigi Odello, presidente del Centro Studi Assaggiatori, è importante che anche il Brasile si muova nella tutela del prodotto tipico. Per Odello si tratta di «una miriade di piccole distillerie artigianali che, goccia dopo goccia, creano un oceano di acquavite. Cantine con legni esotici che imprimono alla cachaça un profilo sensoriale del tutto particolare, in definitiva un vero e proprio patrimonio da tutelare».

Di seguito l’elenco dei vincitori del II Concorso della Cachaça brasiliana.

Medaglia

Produttore

Prodotto

Categoria*

Oro

Agropecuária Santa Elisa

Elisa Ouro

Invecchiata

Oro

Cachaçaria Vale das Águas Quentes

Vale das Águas Quentes

Invecchiata

Oro

Engenho Néctar do Cerrado Ltda

Aroma Brasil Castanheira

Riposata

Argento

Engenho Rio Novo Ltda

Reserva do tanoeiro

Invecchiata

Argento

Clodoaldo Fonseca e Flavio A. do Valle

Valle-S.Andrade

Invecchiata

Argento

Ind. C. Aguard. Caribeña

Caribeña Ouro

Invecchiata

Argento

Canafita Eng.Ind. Exp.Imp.Com. Bebidas Ltda

Armazém Vieira Terra

Invecchiata

Argento

S. D. R. bercito M. E. Ltda

Engenho  da Vertente

Invecchiata

Argento

Aguardente Tiquara Ind. E Comércio

Tiquara

Invecchiata

Argento

Flavio Augusto do Valle

Cachaça Valle

Invecchiata

Argento

Engenho Lagoa Verde

Volúpia

Riposata

Argento

Engenho Néctar do Cerrado Ltda

Aroma Brasil Jequitibá

Riposata

Argento

Antonio Campanari

Campanari

Riposata

Argento

Agropecuária Santa Elisa

Elisa Prata

Riposata

Bronzo

Ind. C. Aguard. Caribeña

Caribeña Prata

Riposata

Bronzo

Ademar Belizario

reserva do gerente

Riposata

Bronzo

Agroindústria São Saruê

São Saruê

Riposata

Bronzo

Nelson. C. Borin

Chora Menina

Invecchiata

Bronzo

André S. Sobral

Cachaça do Porão

Invecchiata

Bronzo

Canafita Eng.Ind. Exp.Imp.Com. Bebidas Ltda

Armazém Vieira Safira

Invecchiata

Bronzo

Clodoaldo Fonseca

Souza Andrade e Fonseca

Invecchiata

* Riposata: almeno tre mesi di affinamento anche in contenitori differenti dal legno

Per raggiungere efficacemente il consumatore occorre parlare il suo linguaggio. L’analisi sensoriale permette di fare questo con buoni risultati. Riportiamo di seguito la sintesi dell’intervento di Manuela Violoni, responsabile ricerca & sviluppo del Centro Studi Assaggiatori al convegno "La comunicazione del vino, quella nuova", svoltosi a Bergamo lo scorso ottobre.

Le descrizioni, in teoria, dovrebbero servire come aiuto a scegliersi il vino. In pratica, molte descrizioni che si trovano nei cataloghi, nelle etichette, nelle pubblicità, ma anche nelle guide, rispondono ad altri bisogni del produttore: creare un alone di nobiltà e fascino attorno al prodotto, legittimare la sua appartenenza all’Olimpo dei grandi vini, cioè un mondo che ha la sua poetica. Ma al bisogno del consumatore di orientarsi poche rispondono efficacemente, con il risultato, specie per l’inesperto, di scoraggiarlo fino a dire “tanto non ne capisco nulla, perché dovrei spendere su una bottiglia importante?”
Una serie di test svolti dal Centro Studi Assaggiatori è entrata nel merito della comprensibilità delle descrizioni presenti nelle guide e nei cataloghi. Il meccanismo dei test era semplice: abbinare una serie di vini, presentati per l’assaggio alla cieca, con la descrizione corrispondente. Risultato: tirando a caso, indovinare sarebbe stato più facile che seguendo le descrizioni.
I motivi di questo sono principalmente due.

  1. a forza di seguire dei modelli eccellenti, le descrizioni sono tutte uguali. Ma i vini sono davvero tutti uguali? È possibile che tutti i rossi siano “rosso rubino intenso” e “profumino intensamente di frutti rossi”? In questo modo viene negata al prodotto la legittima e necessaria differenziazione;
  2. un vino “di una dolcezza tonda e vaporosa di balsamico latte” come può essere? Le descrizioni poetiche possono affascinare e attrarre, ma spesso risultano difficilmente riconducibili all’esperienza che la persona comune può avere del vino. Suscitano curiosità, ma a volte mettono soggezione, creano un senso di esclusione, di non appartenenza rispetto a un mondo che parla il proprio linguaggio.

E qui veniamo al dunque: il lessico utilizzato. Nella pubblicità, nei cataloghi e nelle etichette, ovvero quando lo scopo è comunicare, è utile, è vantaggioso usare il gergo tecnico e le metafore codificate del mondo del vino? Per capirlo, il Centro Studi Assaggiatori ha condotto un test su 43 persone, presentando loro una lista di parole di comune uso in cataloghi, guide e pubblicità e chiedendo cosa significano e cosa fa loro venire in mente.
Risultato: molti termini scatenano nella testa dei consumatori una nebulosa di significati, più o meno aderente alla vera definizione, rivelando una grande approssimatività nella comprensione. Ma – peggio ancora – molte parole, il cui concetto viene ripreso anche nelle pubblicità visive, vengono associate, o per assonanza o a livello semantico, con idee negative.
Una soluzione c’è: usare le parole che userebbe il nostro destinatario. L’analisi sensoriale offre un metodo utile a questo scopo: invece di imporre il proprio lessico, raccoglie le descrizioni che ognuno dà del proprio percepito, e attraverso la statistica ne tira fuori una descrizione comprensibile dal gruppo. In un test di verifica eseguito dal Centro Studi Assaggiatori, le descrizioni costruite in questo modo hanno permesso di riconoscere il vino nel 43% dei casi, contro il 10-20% delle descrizioni proposte da guide e cataloghi.

Voglio i chips

Alitalia, volo per San Paolo. Cena: buona. Smettiamola di criticare sempre. Vini rossi: Nero d’Avola (va di moda, mi dice la hostess), un Toscano doc (vorrei evitare il nome). Il primo si capisce ancora, dall’aroma, che è figlio dell’uva, ma il secondo non è solo una scappatella della vite con il falegname, consenziente un enologo poco attento: paradossalmente è una bevanda che non dovrebbe più essere considerata vino.
Ora, dato che entrambi i prodotti sono del 2004 e a quei tempi la legge che ammetteva i chips ancora non c’era, i due vini dovrebbero essere chips free. Benissimo, allora vuol dire che per il Toscano sono state utilizzate le barrique che a differenza dei chips hanno ampiamenmte contribuito a tutelare il riflesso del territorio sul vino… Sì, ma non i territori della Toscana, bensì quelli occupati dalle belle foreste di Never, Allier, Tronçais. Tutte piantagioni di quercia che fanno ombra a Santa Maria Novella, quindi tipicissime per i vini toscani. 
Insomma, io non penso di essere molto titolato a parlare da esperto sui chips, sono un enologo e non un laureato in filosofia, e corro pure il rischio di fare arrabbiare il mio amico Zironi, ma dov’erano quelli che oggi cavalcano la tigre anti-chips quando l’Italia abbracciava il gallico rovere tingendo di esotico l’aroma dei nostri vini? Dov’erano quando le nostre piccole e medie aziende investivano miliardi di lire sulle barrique basandosi sull’onda di una promessa giornalistica? Dov’erano i verdi quando il mondo ha cominciato a tagliare querce per fare barrique? E poi, come fanno i chips a fare più male della barrique se le sostanze cedute sono le medesime?
Ora, proprio in questo ambito, mi sono convertito all’ecologia spinta e ho deciso che voglio i chips. Porterò in tribunale tutti i sindaci dei comuni detruciolati con l’accusa di ridurre il polmone verde del pianeta favorendo le barrique. Ma non mi fermerò qui. Chiederò al governo che metta a disposizione di ogni cittadino una congrua quantità di chips affinché possa chipparsi il vino in casa.

Tartufo, naso ed emozioni

Come tutti i prodotti, il tartufo può avere aromi gradevoli e meno gradevoli, a seconda della sua qualità (tipo, maturazione, stato di conservazione ecc.). Quello che è sorprendente però, è che al di là del gusto e del disgusto che possano suscitare, gli aromi danno un’emozione molto più complessa.
È quello che emerge dall’ultima edizione del Gioco dei Sensi, tutta dedicata al fungo ipogeo, svoltasi lo scorso 11 novembre ad Alba in occasione del convegno nazionale "Terre da tartufo".
In uno dei giochi proposti, il gioco degli aromi del tartufo, abbiamo sottoposto ai visitatori degli standard, cioè riproduzioni dei singoli aromi che si possono trovare nel tartufo: otto, secondo la scheda ufficiale del Centro Nazionale Studi Tartufo (fungo, fermentato, fieno, miele, spezie, aglio, ammoniaca, terra bagnata). Per ogni aroma, senza dire di quale si trattava ma lasciando a ogni visitatore il compito del riconoscimento, abbiamo chiesto di scegliere l’emozione che suscita, scegliendo tra le quattro emozioni fondamentali della PNL (paura, serenità, tristezza, rabbia), i due giudizi di gusto fondamentali (gusto e disgusto) e l’eccitazione.
Ai due estremi dell’opposizione gusto-disgusto troviamo il fungo da una parte e l’aglio (la sua molecola fondamentale, il solfuro di allile) dall’altra. Il livello di disgusto provocato dall’aglio non è stato raggiunto neppure dal fermentato, dalla terra bagnata e dall’ammoniaca.
Ma è sulle emozioni primarie che emergono i risultati più sorprendenti: alcuni aromi sfuggono all’inquadramento mi piace/non mi piace, per risvegliare uno stato emotivo ben preciso. Il fermentato, ad esempio, sembra aumentare la tensione emotiva, evocando un misto di eccitazione e rabbia, contrariamente al fieno, che dà tristezza o serenità, e alla terra bagnata, tra la tristezza e il disgusto. Le spezie invece vengono inquadrate tra il piacere e l’eccitazione. Interessante l’ammoniaca: oltre che disgusto, ad alcuni ispira paura. Azione inconscia delle nostre difese biologiche?

(Immagine di: Centro Nazionale Studi Tartufo)

A proposito di guide dei vini e di qualità

Un precettario da applausi, come scrive Lizzy, quello proposto da Aristide: “Guide dei vini: compratele, bevete quel che vi pare e siate contenti”. Precetti che qualsiasi consumatore sottoscriverebbe d’istinto. Come potrebbe questi non essere d’accordo, infatti, col l’affermazione che “la sola cosa che conta è il vostro gusto” o che “il miglior metodo di valutazione del vino è quello che considera quanto vuoto è il bicchiere” o ancora “ascoltate le opinioni di tutti sui vini e ignoratele, fate di testa vostra”! Tutte opinioni sacrosante e, se viste dalla parte del consumatore, ampiamente condivisibili ma a me sembra che nel tentativo di democratizzare un pericoloso regime di “oligopolio del concetto di qualità”, quale potrebbe essere quello messo in moto dalle guide e da alcuni opinion leader, si rischi di cascare in un altrettanto pericoloso regime di “anarchia delle opinioni” che, partendo dal dogma (in buona parte condivisibile) che “la valutazione dei vini è quanto mai soggettiva”, confonda il concetto di piacevolezza personale con quello di qualità sensoriale. Attenzione, i due concetti coincidono nella visione individualistica e istintiva (ognuno considera di qualità quello che le/gli piace) ma nell’ambito di un processo formativo, sia personale che collettivo, la qualità, partendo dalla sua stessa definizione, ha degli aspetti più profondi e complessi che la semplice piacevolezza.

Quello che rimprovero ad alcune guide, pur non essendo un polemista di professione, anzi collaborando con una di esse, è il fatto di non dichiarare in maniera chiara il metodo di valutazione utilizzato, ad altre contesto alcune modalità di valutazione che esasperano la già naturale soggettività di giudizio (ad esempio, assaggio individuale a bottiglie scoperte). In ogni caso sono pienamente d’accordo con Aristide, il mondo del vino ha estremo bisogno di guide dei vini (ma il discorso andrebbe esteso a riviste, siti Internet ecc.) che, oltre a colmare tali lacune metodologiche, sappiano soprattutto reinventarsi per diventare sempre più dei manuali di formazione e di informazione integrando la descrizione dei vini con l’individuazione della filosofia qualitativa aziendale, evidenziando, anche in maniera schematica, le peculiarità che distinguono quei vini dai loro concorrenti, umanizzando la realtà aziendale, presentando volti, personaggi, storie, territorio, tradizioni, diventando l’agorà del mondo vitivinicolo, punto di incontro virtuale fra produttori e consumatori in grado di stimolare curiosità e desiderio di conoscersi, di vedere, di visitare, di vivere, di assaggiare, di sognare…

E’ pretendere troppo?

Caffè senza frontiere… di gusto e di prezzo

Su Epicure n.18 del 2006, offerte Metro valide dal 27 ottobre al 30 novembre, a una pagina di distanza, troviamo Tricaffè a € 17,98 al chilo e Marcafè a € 2,99 per lo stesso peso, entrambi in grani. Il primo dichiara nella composizione Caffè Arabica Santos Pergamino Sul de Minas, Caffè Arabica India Plantation AA, Caffè Arabica Colombia, Caffè Arabica Zimbabwe, Caffè Robusta Kappy Royale e promette di dare un prodotto in tazza “dal profumo intenso, dolce e cioccolatoso con corpo pieno e avvolgente”. Il secondo dichiara Caffè Arabica India Plantation AA, Caffè Robusta Tanzania,  Caffè Robusta Kappy Royale screen 18 e promette “gusto morbido ed eccellente nel corpo, con un tocco di dolcezza molto gradevole”.

Io, dovendo fare una scelta in base a quanto viene scritto e dichiarato sarei molto confuso, ma penso che la maggior parte dei baristi non abbia dubbi e vada decisamente per il secondo: in un periodo in cui il caffè al bar è in calo dal 2 al 4% all’anno tanto vale risparmiare. Così, risparmiando un po’ ogni giorno, incrinando sempre più quel rapporto tra torrefattore e barista che li impegnava in modo solidale nel sedurre il cliente per ottenere entrambi il successo, ci sarà anche sempre meno gente che andrà al bar e quella che ci andrà probabilmente consumerà sempre meno caffè.

E’ strano come in una società che ha valorizzato così tanto il vino da creare vere gerarchie di qualità sensoriale e merceologica, nel caffè esista ancora così tanta confusione nella descrizione delle caratteristiche organolettiche e nelle categorie di vendita.

Il 16 e il 17 di novembre si svolgerà a Brescia, promosso dall’Istituto Internazionale Assaggiatori Caffè e dal Centro Studi Assaggiatori, l’International Coffee Tasting, la prima competizione tra miscele e monorigini. Per quanto aleatori possano essere i risultati di un concorso (ma non lo sono: basti pensare che i concorsi mondiali dei vini sono 35) avremo finalmente la possibilità di stilare una gerarchia della qualità. Ma non abbiamo avuto il piacere di vedere iscritte certe miscele, quindi non avremo modo di valutarle. In poche parole i “cattivi” rimarranno ancora impuniti.

Certo, abbiamo sempre la possibilità di andarli a comprare anche noi e di sottoporli a giudizio sensoriale. E mi sa che lo faremo: anche se il mondo del caffè pare voler dire il contrario, noi alla qualità percepita come mezzo di seduzione del consumatore e successo del produttore ci crediamo.

Quando la trattoria entra nel marketing del lusso

Sul marketing del lusso sono stati scritti diversi trattati, ma trattorie, piccoli produttori di cose buone e simili non hanno bisogno di leggerli: come si trovano gratificati dal goloso provvisto di penna si adeguano, di sicuro aumentano i prezzi, qualche volta (sovente) anche riducendo la qualità.
Io sono delle Langhe, un territorio povero che aveva imparato a fare cose eccellenti utilizzando l’intelligenza e quello che la natura, per molti versi avara, regalava. Qualche lustro fa, i primi tempi che ero a Brescia, sentivo di indigeni che organizzavano gite domenicali per giungere in quei luoghi e tornavano raccontando meraviglie di quanto erano stati bene e quanto poco avevano speso. Ora chi ci prova non torna più con lo stesso entusiasmo: poco non ha speso e neppure poi così bene sente di aver mangiato. Non parliamo poi di Brescia, dove le trattorie che sono state messe in guida fanno prezzi medi da 35 euro vini esclusi, vale a dire che ci si alza da tavola, se si è in due, con un conto che gira tra le 150 e le 200 mila lire di una volta.
Ma siamo matti? Che dobbiamo fare per stare un po’ bene? Scomparse le trattorie vere, banalizzate e costose le pizzerie, ci andiamo a fare un kebab? Sì, certo va benissimo, ma non si vive di solo kebab.
Insomma, io lancio un appello vero e sentito: ci possiamo scambiare un po’ di indirizzi di quelli giusti, di cose e posti che non hanno ancora scoperto il marketing del lusso? Ma non partiamo dal presupposto di pubblicarne i nomi su riviste e guide, onoriamoli con una frequenza assidua e con un congruo (e dico

congruo) investimento di risorse, ma teniamocele per noi.

A Italia In Tavola parleremo di analisi sensoriale del tartufo

A Italia In Tavola Il nostro vicepresidente Agostino Braga sarà relatore al seminario “Si può riconoscere l’origine del tartufo?”, che vedrà coinvolti anche Paolo Massobrio e Virgilio Vezzola. Un’ottima occasione per chi vuole saperne di più sull’analisi sensoriale del tartufo che oggi viene usata ampiamente per la valutazione sia oggettiva che edonica del famoso tubero. Abbiamo lavorato per anni, e tuttora stiamo lavorando, su questo tema affascinante con il Centro Nazionale Studi Tartufo.
Il seminario è sabato 7 ottobre alle ore 10,00 alla Fiera di Brescia. Se volete maggiori informazioni sul seminario potete visitare il sito di Italia In Tavola.

Il gusto internazionale del vino inizia ad allontanarsi dall’esagerazione

Nella conferenza stampa di presentazione del Master in Impresa Vitivinicola e Competizione Internazionale, Luigi Odello ha sostenuto che ci sono degli indicatori positivi nelle tendenze del gusto internazionale. Luigi ritiene infatti che si avvertono i primi segnali di crisi dei “vini dell’esagerazione”. Dopo anni di abuso della barrique, il consumatore inizia ad allontanarsi da vini con sentore di legno troppo forte, così come sembra non apprezzare più appieno prodotti troppo corposi o con una gradazione troppo elevata. Sta quindi iniziando a rivolgersi a prodotti diversi, ad esempio prodotti con una prevalenza del floreale sul fruttato. Inoltre, altra nota interessante, chiede sempre maggiore coerenza tra sensorialità intrinseca ed estrinseca, quindi packaging che effettivamente rispecchino il vino che contengono.

E’ bello non mangiare come i cavalli

Lo scorso venerdì, mentre consumavo il buffet organizzato alla Cantina di Soave, al termine della presentazione del Master universitario in Impresa Vitivinicola e Competizione Internazionale, avevo una strana, quanto piacevole, sensazione. Ne cercai la fonte: i partecipanti vivaci e simpatici? Il buon vino? La cornice?  Si, questo c’era tutto, ma in alcuna di queste cose stava l’origine del senso di benessere. Di colpo mi venne in mente: i tavoli! Non che avessero qualcosa di particolare, ma c’erano! E io non ero costretto a mangiare in piedi come un cavallo, con il piatto in una mano, la forchetta nell’altra e… il bicchiere, come lo tengo il bicchiere?
Anni fa fu inventato il piatto con l’incavo per metterci il bicchiere, pensando di risolvere in questo modo il convivio alla moda equina. Ma rimaneva sempre il fatto che quando si deve portare la bevanda alla bocca l’equilibrio della forchetta sul piatto si fa precario. E poi, come dare la mano quando si viene presentati a qualcuno? Come evitare che l’ospite maldestro ti pianti un piatto nella schiena? E quando le gambe si fanno stanche?
Diciamolo francamente, il buffet è bello, ma quello in piedi è la peggiore forma di ospitalità che si potesse inventare. A quanto ne so ci deriva dagli americani, insieme alle tante forme di inciviltà che ci hanno trasmesso. Ma io propongo di abolire i buffet in piedi, di ostracizzarli, di mettere alla gogna ogni organizzatore di manifestazione che ne faccia uso.