Sensory News

Ricerche di mercato, tendenze sensoriali, nuovi metodi e analisi di prodotti
 

Il segreto del cibo del futuro

insect-market-440_1280Siamo dei tradizionalisti. Ci piace la pizza e le pennette al sugo, la cucina della nonna. Ci arrabbiamo quando non si usa il guanciale (o la pancetta?) nella carbonara. Ci indigniamo con quelli che usano il ketchup sulla pasta. Guardiamo con disprezzo chi si vanta della sua colazione salata, e ci fanno inorridire i tedeschi che sorseggiano il cappuccino a pranzo. Per noi il cibo è una cosa importantissima, e non lo cambieremmo mai.

Eppure i cambiamenti nella nostra dieta “italiana” ci sono stati e ci saranno. Prima di accettarlo, il gorgonzola era un formaggio marcio, lo yogurt un latte andato a male. Non sono poi passati troppi secoli da quando, con la scoperta dell’America, ci sono arrivati pomodori e patate, mais e fagioli, peperoni, peperoncini e cacao. E oggi? Impossibile immaginare la cucina italiana senza pomodoro. E la domenica di un lombardo senza polenta? E un calabrese senza ‘nduja? E come farei io senza cioccolato?
Eppure questi prodotti, al loro “sbarco”, erano stati visti con sospetto. Pomodori e patate, per esempio, erano creduti tossici, ed usati solo per decorare i giardini o per l’alimentazione del bestiame, e solo dopo secoli ne abbiamo apprezzato il sapore.

Così oggi: mangiare una cosa sino a pochi decenni fa considerata impensabile, come il pesce crudo, è diventata una normalità. Prima nei ristoranti giapponesi, dove la curiosità ha scatenato la richiesta, per poi finire in molti ristoranti anche occidentali, generando il bisogno di avere quel prodotto anche nei supermercati (e c’è chi ormai se lo prepara addirittura in casa), fin quando diverrà non più una stranezza ma parte integrante della nostra dieta.

Per importare sapori stranieri è quindi il ristorante la prima via: il posto dove si ha voglia di assaggiare qualcosa di strano, di “esotico”, qualcosa che non si cucinerebbe mai a casa propria. E prova e riprova, prima per curiosità e poi per gola, lo strano diventa quotidiano, il diverso diventa tradizionale.

Che sapore ha un Kandinsky?

shutterstock_89166634Siamo nell’era di Instagram. La gente passa la maggior parte del suo tempo col telefonino in mano e, per esprimere agli altri quanto sia felice e fortunato, fotografa le vacanze, i paesaggi ma, soprattutto, quello che mangia. In questa ossessione per le foto del cibo diventa fondamentale non tanto il sapore quanto l’impiattamento, l’eleganza e la golosità della presentazione che deve esaltare, quasi come una pubblicità, le texture e l’appetibilità. Quest’arte, però, si tradurrà in un sapore diverso?

Prendiamo una banale, banalissima insalata. Lattuga, funghi, legumi, salse, vari ed eventuali. Procedura casalinga: mondare, tagliare, e ammucchiare in un’antiestetica montagnola in cima al piatto. Appetibile? Forse per una capra.

Potremmo provare ad essere ordinati, maniacali, e tenere tutti gli ingredienti sul piatto per assaggiarli uno alla volta e lasciare allo stomaco il duro dovere di mescolare i sapori.

Oppure, potremmo prendere un quadro che ci piace, ad esempio di Kandinsky, disporre il cibo allo stesso modo, e poi provare a gustare, nel nostro piccolo, un’opera d’arte.

Il sapore, il percepito, sarà diverso o uguale?

C’è voluta la curiosità di alcuni ricercatori dell’Università di Oxford per sciogliere questo nodo. Hanno preso 60 volontari per assaggiare insalate presentate in modo tradizionale, o in modo ordinato, oppure disposte ad imitare con garbo il movimento del dipinto 201 di Kandinsky.

Non sorprenderà sapere che gli intervistati, su scala 0-9, abbiano valutato molto meglio l’opera d’arte culinaria. Sicuramente più gradevole alla vista, più complessa, sarebbero disposti a pagare molto di più per avere l’onore di assaggiarla. Curiosamente, valutando solo alla vista, non c’è grande differenza sulla valutazione del sapore atteso tra le tre opzioni.
È quando gli intervistati prendono in mano la forchetta che nascono le sorprese: l’insalata artistica, a parità di ingredienti e quantità, è stata valutata sensibilmente più saporita, più buona delle altre.
La dimostrazione che ormai il #foodporn è ormai un’arma potentissima, e che un ristoratore che voglia davvero stupire e distinguersi non possa più solo basarsi su ingredienti di qualità.

Fonte
Michel et al.: A taste of Kandinsky: assessing the influence of the artistic visual presentation of food on the dining experience. Flavour 2014 3:7.

Andare a vendere il vino in Russia con analisi sensoriale

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Avere un buon interprete russo non basta per vendere il vino in Russia, come non basta tradurre in russo le nostre etichette e le descrizioni su cataloghi e siti web. Quel popolo, che nell’immaginario mondiale è dedito alla vodka, in realtà ha un grande amore per il vino e una straordinaria capacità di descriverlo e di trarre da esso evocazioni di sublime romanticismo. E’ quanto ha messo in evidenza Stefania Cecchini nella sua tesi discussa all’Università di Udine il 24 marzo.
Stefania, Narratore del gusto,  è andata in giro per enoteche russe organizzando serate di degustazione in cui ha proposto famosi vini italiani (dall’Asti al Barolo) con una scheda a descrizione libera. Poi ha raccolto diligentemente i dati in matrici e, con la supervisione della professoressa Rosanna Giaquinta, nota russologa, ha tradotto i termini in italiano per organizzarli, infine, in mappe sensoriali.  Ne è emerso un quadro sorprendente dal quale si evince che se parliamo del nostro vino ai russi come agli italiani rischiamo di non essere compresi.
La tesi conferma inoltre l’efficacia delle tecniche di analisi sensoriale utilizzate quale forma innovativa di trasferimento della cultura del prodotto: raccontarlo sulla base di quanto viene percepito risulta di gran lunga più efficace dei monologhi propri delle degustazioni tradizionali.

Paolo Nadalet presidente Inei: una speranza per gli assaggiatori di caffè

nadaletPaolo Nadalet, amministratore delegato di Cma e Wega, è il sesto presidente dell’Istituto Nazionale Espresso Italiano, l’organismo che riunisce 35 aziende del comparto caffè per un fatturato complessivo di circa 700 milioni di euro.
Una notizia che, di primo acchito, per quanto importante sia il sodalizio, parrebbe non avere molta parentela con l’analisi sensoriale.
In realtà l’Inei è stato fondato da un gruppo di manager aderenti all’Istituto Internazionale Assaggiatori Caffè e la sua azione di tutela e promozione si basa su una delle prime certificazioni sensoriali al mondo. Con Paolo Nadalet, presente attraverso le aziende che dirige in 140 nazioni, si profila quindi un potenziamento del trasferimento della nostra analisi sensoriale all’estero. Se nel 2014 oltre il 50% dei corsi Iiac sono stati fatti fuori dai nostri confini, con la nuova presidenza di Inei crescono le prospettive di un coinvolgimento di nuovi paesi attraverso gli operatori del comparto horeca. Considerando che l’Espresso Italiano è un grande ambasciatore dell’italian style, la cosa non potrà che avere una notevole ricaduta anche sugli altri settori.

Mappa sensoriale: Alfio Neri, la colomba artigianale

colomba alfUn caldo colore marrone della glassa e un gradevole giallo chiaro della pasta, sono il biglietto da visita di un prodotto così morbido, poroso e avvolgente da ricordare quelle note armoniose e speciali del legno.
Un tripudio di mandorle, glassa e piccole perle di zucchero che nel palato sprigionano sensazioni veramente uniche. La dolcezza degli eccellenti canditi, la morbidezza e l’ impalpabile croccantezza della pasta accompagna chi l’assaggia in un viaggio esperienziale leggero e delicato.
Il suo aroma è un bouquet di fiori primaverili, arancia candita, cannella e pasticceria, che trasmette serenità e pace, come un vero momento di gioia da trascorrere in famiglia.
Un prodotto artigianale dedicato alle feste, da offrire nel proprio focolare a ospiti graditi e attenti: un delicato regalo da accompagnare a un vino da dessert strutturato come un passito ma che è in grado di essere gustato da solo, in purezza in compagnia dei parenti più stretti.
http://www.alfioneri.it
alfioneri@libero.it

 

Recensione: Il vino nel mondo

Image A cura di: Associazione Italiana Sommeliers

Formato: 21×26

Pagine: 558

Prezzo: 45 euro

Contenuti: un libro alla scoperta dei vini e vitigni autoctoni del mondo. Grande attenzione sulla Francia in cui si esplorano nel dettaglio le varie regioni enologiche, per poi passare all’Europa e al mondo intero. Per ogni nazione è proposta una breve storia delle qualità di vino presenti e le pratiche viticole adottate, vengono inoltre descritte le zone chiave adibite alla vitivinicoltura.

Robert Parker e la riscoperta del terroir

http://www.assaggiatori.com/blog/index.phpRobert Parker apre al valore del terroir.
Abituati all’estrema quantità di vini regionali e locali disponibili, gli italiani, peccando forse un po’ di etnocentrismo, faticano a capire la difficoltà con cui i consumatori degli altri Paesi, specie non europei, si approcciano al panorama viticolo italiano. Essenziale, a questo riguardo, il lavoro di aiuto nella comprensione della differenziazione dei terroir di professionisti e riviste del settore, tra cui spicca l’americana Wine Advocate (WA), pubblicazione fondata da Robert Parker, probabilmente il critico di vini più influente nel mondo.”

Così scrive Vinit. Che i critici siano importanti e che tra questi Robert Parker abbia un ruolo di primo piano non v’è dubbio, ma sul discorso dell’enocentrismo degli italiani siamo un po’ meno convinti. Enologi di vaglia dotati di notevole empatia e di solide doti di creatività, gli italiani hanno ammiccato all’enologia “internazionale” travestendo i propri vini per farli piacere di più secondo mode che non sono nostre. Baroli sfigurati dal legno, piccoli vini innovati con tecnologie capaci di portarli a essere generosi e succosi, bollicine in cui vitigni e territorio sono offuscati da sentori esogeni.
Stiamo parlando al passato, ma la situazione per molti non è cambiata. Se è vero, come dice Gualtiero Marchesi, che il nostro non è il paese della ricchezza, ma dell’eleganza, si rende necessario un cambio di rotta per valorizzare quei vini che vivono delle loro virtù territoriali. Per fare questo occorrono tre cose: la convinzione, il coraggio e nuove forme di narrazione. In poche parole occorre produrre vini di grande personalità in cui si riflette il territorio (quindi non Australia, Sud Africa o California) e innovare il modo di raccontarli per farli capire. Troveremo sicuramente estimatori che sapranno convincere altri enofili su qualcosa che è unico e irripetibile, perché arriva dall’Italia e solo dalla nostra terra può arrivare.

Aromi, maturazione del seme e mode

http://www.assaggiatori.com/blog/index.php Il mondo vegetale, dal quale noi siamo largamente dipendenti per alimentazione e piaceri della vita, vive di un egoismo tutto suo. Togliamoci dalla testa che una pianta possa produrre aromi nel frutto per il nostro piacere, lo fa solamente per trovare un collaboratore che l’aiuti nella propagazione della specie. Così, fino a quando il seme non è maturo non sognatevi di trovare un complesso aromatico appagante, e quasi sempre anche sotto il profilo tattile e gustativo non riesce a darci il piacere atteso. Solo quando il seme è maturo la pianta, infatti, riduce le difese nei confronti degli attacchi esterni e il frutto si fa più dolce riducendo anche l’astringenza di cui è portatore. La maggioranza della frutta che troviamo oggi in vendita è acida, a volte astringente e non ha profumo, perché tra l’altro è stata raccolta troppo presto.
Non è un concetto difficile da capire, ma storicamente le mode hanno portato a cancellarlo, a fare finta di nulla. Per il vino, se vogliamo tornare agli anni Ottanta, ci fu una grande corrente di pensiero che voleva l’uva raccolta prima della maturazione fisiologica. Un po’ più di acidità faceva comodo e sicuramente i vini erano più serbevoli. Ma sapevano di poco. Ora è la volta del caffè, un po’ per necessità e un po’ per stupidità. Da una parte l’aumento dei costi della manodopera sta facendo avanzare la raccolta meccanica ovunque possibile, con il fatto che in molte partite solo una parte minoritaria dei frutti raggiunge i 20 Brix di zuccheri (livello minimo per garantirsi una certa dose di precursori di aromi) e una parte ancora inferiore i 25 Brix, livello necessario per ottenere un grande caffè. Si aggiunga inoltre che per evitare incidenti di percorso è sempre più in voga l’essiccazione forzata. E, come se non bastasse ecco l’arrivo della moda del secolo: tostare chiaro per mantenere l’acidità. Questo significa non riuscire neppure a sviluppare quel minimo di precursori di aromi che abbiamo nei semi. Insomma, qualcuno vuole farci intendere che una tazzona di caffè che risulta per lo più un miscuglio di acido citrico e malico è quanto di meglio ci possa essere. Ma tra questi sostenitori della nuova moda c’è anche chi ha detto che se l’acidità è citrica il caffè ha note agrumate, se è malica sa di mela. Motivo in più per non crederci, per ribadire la saggezza dei padri del nostro Espresso Italiano: tostature lente e piene usando solo caffè perfettamente maturi. Felici di essere fuori moda.

Recensione: La tazzina del diavolo – Viaggio intorno al mondo sulle vie del caffè

Image Autore: Stewart Lee Allen

Editore: Feltrinelli Traveller

Formato: 12,4 x 18,3

Pagine: 190

Prezzo: 7,50 euro

Contenuti: Anno 1988, un viaggio intorno al mondo e un racconto di vita sulle vie del caffè. Dal Kenya all’Etiopia, lo Yemen, la Turchia e l’Europa, terminando in un coast to coast negli USA. Questo libro intreccia la storia personale del protagonista alle diverse culture del caffè sparse nel globo.

Il piacere di piacere

shutterstock_56808880Esistono molti buoni prodotti, ma non tutti i prodotti possono permettersi il lusso di essere eccellenti. Cosa stabilisce quindi l’eccellenza di un prodotto? La risposta è semplice ed è da ricercare in ciò a cui tutti in  fondo aspirano: il piacere

“Il mio prodotto non si fonda sul lusso, ma sul grande piacere”. A fare questa affermazione altri non era che Gianfranco Soldera, che creando vini unici, al limite del provocatorio, ha dato vita a un successo mondiale senza compromessi.

È questa grande personalità, il sogno, la ricerca e la mano (e la fatica) di grandi e piccoli produttori a dar vita a esperienze uniche, che talvolta possono trasformarsi in lusso, ma che spesso più semplicemente sono un lusso per i sensi.

È il grande piacere che sono in grado di offrire a tramutarli infatti in vere e proprie eccellenze: il piacere che trovano questi grandi uomini (e donne) nel creare e nel gustare i propri prodotti (cosa non scontata), ma soprattutto il piacere di chi incontra questi prodotti, espresso poi con il desiderio di ripetere l’esperienza.

L’eccellenza esprime quindi non uno status, non il lusso, e nemmeno un prezzo; eccellenza è la ricchezza trasmessa in chi assaggia, è l’incontro tra percezioni ed emozioni, storia e passione.

E se molti sono i prodotti che possono piacere al consumatore senza però arricchirlo (e questi solitamente non arricchiscono nemmeno il produttore), altrettanto numerosi sono quelli che emozionano il loro creatore, ma che non offrono piacere al pubblico, perché complicati o semplicemente non buoni. Altri ancora non piacciono a nessuno e devono il loro successo a sovrastrutture valoriali particolari (biologico, sano, territoriale).

La vera eccellenza invece non distingue le aziende per fatturato o per quantità di produzione e ricavi, ma per la loro capacità di offrire ciò che in fondo tutti cercano (più o meno palesemente): il piacere.