Mappa sensoriale: Grondona, boccini antica Genova
I veri biscotti della tradizione genovese, ricchi e semplici. Fatti con l’originale ricetta della pastafrolla ligure arricchita con frutta candita, uvetta sultanina, pinoli di prima qualità e veri semi d’anice. Solo ingredienti autentici e genuini.
Come eliminare un giudice stanco
Come dire: un buon software mette fine alle annose discussioni sul fatto che i giudici siano stati selezionati bene, sui quanti campioni si possono somministrare in una sessione e su quante sessioni si possono fare prima che il panel smetta di funzionare come dovrebbe.
Siamo veramente disposti a innovare?
Nel corso della mia esperienza al Centro Studi Assaggiatori ho appreso la notevole importanza dell’analisi sensoriale. Si tratta di un vero e proprio strumento di lavoro che fa da ponte tra le materie prime, i territori, le persone e la comunicazione. Riesce a descrivere le qualità di ogni singolo alimento attraverso tecniche innovative e il suo fine ci porta a decifrare tutte le sensazioni che ci evocano prodotti come cioccolato e vino; i risultati ottenuti dalla valutazione sensoriale vengono poi applicati alla ricerca e allo sviluppo di nuove tecnologie o di nuove produzioni, per il controllo della qualità del prodotto stesso e per migliorare le strategie di comunicazione e marketing. Valutando i campi di applicazione ai prodotti enogastronomici di queste tecniche, reputo che alcune realtà, come quella del vino, siano molto più avanti rispetto ad altre cui ho avuto modo di approcciare e seguire nelle ultime settimane, soprattutto quello del cioccolato.
Inno alla inutilità
Quando venni a contatto per la prima volta con le monodosi per preparare il caffè – credo fosse il 1990 o giù di lì – pensai che fossero inutili, che nessuno avrebbe mai abbandonato il rito della moka a casa solo per la praticità di schiacciare un pulsante e servirsi un caffè. Mi sbagliavo. Nei decenni che seguirono cialde e capsule crebbero a dismisura diventando un fenomeno sociale, in barba a tutti i predicatori dell’ecosostenibile.
La taratura e la sua importanza
Da assidua e seriale frequentatrice di corsi (vino, birra, grappe), ogni volta che si arriva alla fase degustativa con gli esperti (alcuni di essi veramente bravi) c’è sempre un piccolo tarlo nella mia mente che dice: abbastanza o moderatamente acido, cosa vogliono dire? Perché io sento una cosa e colui che parla la percepisce in maniera molto diversa? E soprattutto, perché devo prendere per oro colato quanto dice?
In realtà ciò che accade è che non si utilizza in questi momenti didattici una scala discreta comune per tutti e quindi ognuno tende a farsi una sua idea di una specifica sensazione senza che essa subisca nè verifica nè taratura con il resto del gruppo. Vada per le degustazioni a un pubblico di appassionati, ma quando ci sono momenti di formazione, gli esperti degustatori devono seguire le norme dei panel, tararsi, di modo tale da poter dare a chi ascolta il più preciso output possibile.
Il rischio di non seguire questa prassi è quella di ingenerare una grande confusione e creare un distacco sempre maggiore tra chi parla e chi assaggia, in quanto manca un linguaggio comune comprensibile da tutti e che tutti possono utilizzare nel momento dell’assaggio. Inoltre il degustatore si trova nella condizione di dover pensare alla sensazione senza che il giudizio gli venga spontaneo in quanto non possiede dentro di sè un metro di giudizio da poter utilizzare in ogni situazione.
Ecco che deve venire in aiuto in questi casi l’analisi sensoriale, per aiutare l’esperto a fidarsi dei propri sensi e per poter trasferire a chi ascolta la poesia che ci regalano alcune sensazioni nella maniera più semplice e immediata possibile.
Il nuovo Codice Sensoriale: Olio di oliva
Ci sono tre livelli di piacere, crescenti. Il primo è quando noi percepiamo, indipendentemente dalla nostra sensibilità, qualcosa che ci fa stare bene. Il secondo quando abbiamo la capacità di descrivere e misurare quello che ci dà piacere. Il terzo quando sappiamo che la percezione positiva ricevuta è dovuta a qualcosa di raro e di prezioso di cui abbiamo coscienza del pregio delle materie prime e della maestria nella realizzazione.
Il Codice Sensoriale Olio di Oliva nasce nella prospettiva di fare raggiungere all’utente finale il terzo livello del piacere, consentendogli di incrementare la realtà percepita fino a conoscere le relazioni esistenti tra quanto percepisce e la genesi degli stimoli che riceve durante il consumo del prodotto. Questo non solo significa appropriarsi di autonome capacità di scelta svincolandosi da cantori e pubblicità, ma riuscire a dare un nuovo significato al consumo del condimento principe della cucina italiana.
Immergersi nell’aroma dell’olio di oliva che si sta consumando per iniziare un viaggio per i territori che lo producono e i personaggi che li popolano dà un nuovo valore all’atto alimentare e alla spesa che ha comportato. Il futuro non è rappresentato dal low cost, ma dal sapere spendere il giusto perché quanto riceviamo lo compensa. Sapersi allontanare dai miti per acquistare prodotti ad alto valore intrinseco è una sfida che in un mondo scolarizzato come il nostro si può vincere. Questo nuovo codice sensoriale vuole dare un piccolo contributo alla società per raggiungere questo obiettivo.
Ne mangerei fino a scoppiare
“Ne mangerei fino a scoppiare”. Questo è l’effetto che ingenerano alcuni cibi, soprattutto quelli grassi e succulenti. Ma cosa succede al nostro cervello quando ingeriamo queste sostanze? Prendiamo l’esempio di una innocua fetta di pizza, con la sua filante mozzarella. In realtà uno studio dell’Università del Michigan recentemente pubblicato dice che ogni volta che mangiamo un latticino, durante la digestione la caseina viene scissa producendo delle casomorfine, oppiacei che danno al nostro cervello una forma di gratificazione e che, quando sparisce, ci fa venire voglia di averne ancora. Taleggio e gorgonzola come droga? Può darsi, certo è che per sviluppare una dipendenza se ne dovrebbero mangiare delle quantità gargantuesche.
E a quanti di noi in giornate tristi e uggiose non è mai venuta voglia di un pezzo di cioccolato per sentirsi subito bene? Questo lo dobbiamo al fatto che il cacao stimola la produzione di serotonina, l’ormone della felicità, quella che crea dipendenza; ma cerchiamo di non abusarne in quanto in alte quantità questa sostanza può produrre allucinazioni (magari di fette di pizza filanti di mozzarella).
Tempo fa anche l’Università di Princeton ha fatto degli studi sulle dipendenze alimentari, per scoprire che zuccheri e carboidrati fanno scattare meccanismi da drogati di cibo, riscontrando altissimi livelli di dopamina nei topi a cui veniva somministrata acqua e zucchero ogni mattina dopo una notte a digiuno; gli animali, dopo un po’ di tempo, se non ricevevano la loro “dose” mattutina, diventavano irrequieti e irritabili. Stessa cosa successa a un olandese, Sacha Harland, che ha volontariamente subito un processo di disintossicazione dagli zuccheri e dall’alcool per un mese, andando incontro a vere e proprie crisi di astinenza che ha documentato su supporto video.
Come sempre l’importante è non esagerare, cercare di equilibrare la dieta per poterci concedere ogni tanto quel piccolo momento di felicità dato da un gustoso boccone di buon cibo grasso, zuccheroso e cioccolatoso.
Il presidente della Coop non sente le vecchie signore
Comprereste del Gorgonzola a Gorizia? Probabilmente no, a meno che non siate goriziani e/o abbiate voglia di Gorgonzola. Perché la sua zona di produzione è a 500 chilometri, perché non è tipico, perché non è a chilometro zero. Eppure ne ho trovato di buonissimo. Ripercorrendo mentalmente il mio atto di acquisto credo di avere scoperto il perché: il segreto sta nel droghiere. Un esperto? Forse, di certo un orecchio attento. Il suo negozio pullula di signore piuttosto antiche e pretenziose che ordinano piccole quantità di tante cose e su tutte gli fanno il pelo e il contropelo: il prosciutto dell’ultima volta non era buono come quello della precedente, il latteria non è stagionato bene, il salame è troppo speziato. Lui le raccoglie e le trasmette ai suoi fornitori con la minaccia di non comprare più. Questi a loro volta le passano al produttore che cerca di adeguarsi. Ed ecco un fantastico sistema di controllo qualità allineato al comandamento principe: soddisfare il consumatore.
Ma il presidente della Coop, come tutti i suoi colleghi della gdo, non sente le vecchie signore. Probabilmente il suo banconista le sente e, pur non essendo il proprietario del negozio, mosso dal suo orgoglio professionale, le passa al suo superiore. Questo, forse, le passa per via gerarchica sempre più in alto fino che qualcuno le trasmette al responsabile dell’assicurazione qualità. Il Raq le valuta, scruta i capitolati di acquisto e, se ritiene sia il caso, invia una comunicazione al produttore. La via è così lunga che solo un messaggio iniziale molto forte ha qualche probabilità di essere sussurrato con voce flebile al controllo qualità del produttore.
Insomma, se vogliamo salvare la qualità di molti prodotti, quella sensoriale, quella capace di generare emozioni, dobbiamo salvare droghieri, fruttivendoli, macellai e via discorrendo. Credo che la nostra società abbia punito a sufficienza la cupidigia che a volte li caratterizza: senza adeguati centri di ascolto del consumatore non possiamo stimolare adeguatamente il produttore verso una qualità che non sia solamente igienica.
Confermato dai sensi: il bue non è un vitellone
Se uno vi mettesse davanti una carne cruda battuta al coltello, stessa mano, stesso taglio e medesimo coltello, pensate di poter riconoscere se è di bue o di vitellone? Riuscire nell’impresa non è così scontato, ma l’ ottantina di persone di varia estrazione che ha partecipato a tre seminari sulla carne, organizzati con la regia di Gianfranco Occelli, addetto alla comunicazione del Consorzio del Bue Grasso di Carrù, ha decretato che esistono differenze sensorialmente percepibili. Più rossa e gustosa la carne di bue, di colore più tenue e più tenera quella di vitellone.